giovedì, dicembre 29, 2005

Arrestato esattore del pizzo palermitano

PALERMO - I carabinieri del nucleo operativo del comando provinciale di Palermo, in
collaborazione con i militari della compagnia di Misilmeri, hanno arrestato ieri in flagranza un
uomo ritenuto dagli inquirenti l'attuale esattore delle estorsioni della zona di Misilmeri e
Villabate. Le indagini, coordinate dal procuratore aggiunto Giuseppe Pignatone e dai sostituti
Michele Prestipino, Maurizio De Lucia e Antonino Di Matteo, iniziate da alcuni mesi, avevano
accertato che nella zona compresa tra Villabate e Misilmeri, numerosi commercianti ed
imprenditori erano vittime di richieste estorsive da parte di uomini della famiglia mafiosa locale.
L'esattore è stato arrestato all'uscita da una impresa di Misilmeri da cui si era fatto consegnare
500 euro. In carcere è finito Francesco Caponnetto, considerato dagli inquirenti, l'emergente
della famiglia mafiosa di Misilmeri, che dopo gli arresti degli ultimi mesi aveva puntato sul
giovane per assicurare la raccolta del pizzo presso commercianti ed imprenditori della zona.
I carabinieri da alcuni giorni si erano appostati vicino ad una rivendita di materiali edili,
disponendo intercettazioni ambientali con telecamere e microfoni per cogliere l'esattore sul
fatto. Ieri sera Caponnetto si è presentato al titolare della rivendita e dopo un'animata
discussione si è fatto consegnare 500 euro.
La scena è stata ripresa dalle telecamere dei carabinieri che hanno registrato tutte le fasi della
discussione, compreso il racconto di Caponnetto sulla destinazione dei soldi che sarebbero
andati alla cosca di Misilmeri. L'esattore ha anche annunciato che la "famiglia" non si sarebbe
accontentata, infatti la richiesta originaria era di 1500 euro.
"Dirmi di non tornare più è come offendermi - ha detto all'imprenditore annunciando una futura
visita - Nessuno deve permettersi, a me o a quelli come me, di dire di non tornare piu".
Caponnetto dovrà rispondere di estorsione aggravata: a coordinare le fasi dell'arresto è stato il
pm Fabrizio Vanorio.
Mercoledì 21 Dicembre

Gela, ancora un colpo alla "Stidda"

GELA (CALTANISSETTA) - Gli agenti del commissariato di Gela e della squadra mobile di
Caltanissetta stanno eseguendo 10 ordini di custodia cautelare in carcere emessi dal gip del
tribunale nisseno, Giovanbattista Tona, su richiesta della Dda, per estorsione aggravata e
associazione mafiosa. A quattro degli indagati i provvedimenti restrittivi sono stati notificati in
carcere, dove si trovano già detenuti per altri reati.
I destinatari dei provvedimenti, secondo gli inquirenti, farebbero parte di Cosa nostra e della
'Stidda', che dal '92, dopo gli anni della guerra di mafia a Gela, hanno firmato un armistizio,
tuttora valido e rispettato, fino al punto da portarli a una divisione delle zone di influenza
criminale e alla collaborazione nel racket delle estorsioni e nei traffici di stupefacenti.
Queste le 10 persone arrestate: Filippo Salvatore Faraci, 28 anni, imbianchino, sorvegliato
speciale; Carmelo Fiorisi, 45 anni, agricoltore, anche lui sorvegliato speciale, Calogero
Cosenza,
73 anni ,a cui sono stati concessi gli arresti domiciliari per l'età. Sono tutti di Gela.
A Treviglio, in provincia di Bergamo, con il concorso della squadra mobile della questura di
Bergamo, è stato arrestato Giuseppe Novembrini, 33 anni di Gela.
La misura è stata notificata in carcere a Alessandro Gambuto, nisseno di 30 anni, Enrico
Maganuco
, gelese, 42 anni, Luca Luigi Incardona, gelese, 29 anni. Inoltre, con il concorso delle
Squadre Mobili delle questure di Perugia, l'Aquila e Potenza, l'ordinanza di custodia cautelare
in carcere è stata notificata a Rosario Trubia, 41 anni, Francesco Morteo, 41 anni ed Emanuele
Cosenza
, 43 anni, tutti gelesi.
20 Dicembre 2005

sabato, dicembre 17, 2005

Pizzo ed usura, allarme in Sicilia

PALERMO - Sono 50.000 - pari al 70% del totale - i commercianti siciliani vittime del
racket delle estorsioni. 21.500 piccoli imprenditori, nell'isola finiscono nel giro dell'usura il
cui volume di affari è di circa 1,4 miliardi di euro l'anno. Sono i dati rielaborati dalla
Confesercenti di Palermo sulla base del rapporto 2005 dell'associazione antiracket e
antiusura "Sos impresa".
Secondo lo studio i numeri sarebbero ancora più allarmanti delle città di Catania a e
Palermo dove a pagare il pizzo sarebbe l'80% dei commercianti
. Cosa nostra imporrebbe
tariffe differenziate: 200-500 euro al mese ai piccoli negozianti; 750-1000 a chi ha
un'attività nel centro delle città e 5000 euro ai supermercati.
"Negli ultimi anni è diminuito il numero di denunce a fronte di una forte crescita del
fenomeno usura - dice Lino Busà, presidente di Sos Impresa - I motivi sono
essenzialmente tre: il venir meno della fiducia nello Stato, la vergogna nel dire di essere
caduti nella rete degli usurai, la non convenienza della denuncia".
I tempi dei processi per usura possono essere lunghissimi, nel 40% dei casi il decreto di
rinvio a giudizio si ottiene dopo 2-4 anni dalla denuncia, mentre per la sentenza nel 70%
dei casi per la sentenza si deve aspettare più di 4 anni. Inoltre, il 58% dei processi si
conclude con una condanna, ma quasi tutti i condannati rimangono a piede libero.
"Questi dati - aggiunge Busà - bastano da soli a spiegare perchè i commercianti vittime
del racket non vedono nella denuncia dei propri estortori una soluzione. In Sicilia -
conclude - nel '98 le denunce erano 164, nel 2004 73. Allo stesso modo a Palermo si è
passati dalle 33 di 7 anni fa alle 10 circa dello scorso anno".
16 Dicembre 2005

In manette 4 imprenditori vicini alla mafia

GELA (CALTANISSETTA) - Gli agenti del commissariato di Gela e della squadra mobile di
Caltanissetta stanno eseguendo 5 ordinanze di custodia cautelare, tra la Sicilia e il Friuli,
nell'ambito di un'indagine per associazione mafiosa e riciclaggio coordinata dai pm della Dda di
Caltanissetta Renato di Natale e Rocco Liguori. I provvedimenti sono stati emessi dal gip Paolo
Scotto. Si tratta di cinque imprenditori "vicini", secondo gli inquirenti, al clan gelese degli
Emmanuello.
Tra le persone arrestate c'è anche Massimo Fabio Romano, 34 anni, contitolare di un'azienda
del settore edilizio e fino a giugno scorso presidente della squadra di calcio della città, il Gela Jt
promossa in serie C1 proprio sotto la sua gestione. Il sindaco, Rosario Crocetta, lo aveva
invitato a dimettersi sostenendo che, dal momento che la prefettura gli negava il rilascio
dell'informativa antimafia, se fosse rimasto alla guida della squadra non gli avrebbe erogato il
contributo comunale di sponsorizzazione.
In manette sono finiti anche Giuseppe Mirko Romano, 26 anni, operatore commerciale, fratello
dell'ex presidente del Gela; Claudio Lo Vivo, 30 anni, imprenditore edile e Giuseppe Armando
D'Arma,
51 anni, anche lui imprenditore. Una quinta persona è ancora ricercata. Secondo
l'accusa, attraverso gli imprenditori la famiglia mafiosa del latitante gelese Daniele Emmanuello,
esponente delle cosche nissene gestiva i suoi affari in Sicilia e in Friuli e otteneva lavori persino
in appalti controllati dalla prefettura di Caltanissetta, come quello relativo alla ricostruzione del
porto-isola di Gela, aggiudicato alla Mantovani Spa, o appaltati dalla Nato nella base di Aviano.
Secondo i magistrati gli arrestati gestivano anche il racket delle estorsioni e riuscivano a
imporre loro dipendenti: in una occasione avrebbero fatto riassumere dal titolare di un night
club della provincia di Pordenone due ragazze licenziate perchè erano arrivate tardi al lavoro.
Tra le accuse contestate c'è anche quella del traffico di stupefacenti.
Gli investigatori hanno anche disposto il sequestro preventivo di due aziende: la Edilimpianti
industriali srl, con sede a Gela, il cui amministratore unico era Massimiliano Mancino, genero
dell'imprenditore D'Arma e, la Cim Costruzioni industriali, sempre di Gela, gestita da Clara
Addario. Secondo la procura sarebbero tutte imprese riconducibili alla cosca Emmanuello.
Giovedì 15 Dicembre

Operazione "Uragano", venti arresti

Inginocchiati davanti al boss e picchiati.

CALTANISSETTA - Venti presunti affiliati alle cosche mafiose nissene sono stati arrestati
dai carabinieri di Mussomeli nell'ambito di una operazione, denominata Uragano, cui
hanno partecipato oltre 170 militari. Nel corso delle indagini è emerso anche il sequestro
di un piccolo imprenditore agricolo che ha poi collaborato con gli inquirenti. L’uomo,
proprietario di appezzamenti di terreno a Milena, aveva raccolto e accantonato il grano
quasi al confine con i terreni di Salvatore Mattina, arrestato la scorsa notte. Ma qualcuno
ha incendiato il raccolto così l’imprenditore aveva richiamato Mattina per quanto era
accaduto.
L’imprenditore venne avvicinato da alcuni componenti della famiglia Mattina e dai fratelli
Giuseppe e Gioacchino Cammarata, anch’essi indagati, che lo avrebbero schiaffeggiato e
costretto a seguirli a casa di Salvatore Mattina. Quindi, davanti al presunto mafioso,
l’imprenditore fu minacciato con una pistola alla tempia, costretto a inginocchiarsi e a
chiedere scusa per il suo atteggiamento poco rispettoso. Un atteggiamento di arroganza,
come lo ha definito il sostituto procuratore Antonino Patti, che serviva per intimidire le
vittime designate.
Secondo l’accusa, infatti, la frangia separatista del clan di Francesco Randazzo inviava
«pizzini» ai commercianti di Milena, Campofranco e Montedoro con minacce di morte
anche per i loro familiari e la richiesta di pagamento di somme elevate, tra i 50 mila e i 60
mila euro. Quindi le stesse vittime venivano avvicinate per strada e minacciate di morte,
poi seguivano i danneggiamenti: colpi di fucile esplosi contro le auto o le vetrine dei
negozi.
Tra le intimidazioni ai danni di commercianti anche teste di maiale mozzate e lasciate
davanti alla loro abitazione. Le indagini sono state avviate a maggio ma secondo la
procura nissena le vittime non hanno mai pagato il «pizzo» imposto perchè gli indagati
avevano avuto sentore di un’inchiesta a loro carico. Un giovane di Milena, sentito dai
carabinieri (e ora indagato per favoreggiamento), infatti, aveva contattato i fratelli
Cammarata avvertendoli delle indagini e rassicurandoli che lui e i suoi familiari non
avevano riferito una sola parola contro gli esponenti del clan. A quel punto, gli indagati si
contattavano con cautela evitando di accennare argomenti sospetti.
Due provvedimenti restrittivi sono stati eseguiti a Palermo e ad Asti. Le ordinanze di
custodia sono state emesse dal gip di Caltanissetta, Fabrizio Nicoletti, su richiesta dei pm
della Direzione distrettuale antimafia, e riguardano persone accusate di far parte delle
famiglie mafiose di Milena, Montedoro e Campofranco, tutte nel nisseno.
Mercoledì 14 Dicembre

sabato, dicembre 10, 2005


Scandurra eletto all'antiracket nazionale... Posted by Picasa

giovedì, dicembre 08, 2005


Arrestato presunto complice di Provenzano... Posted by Picasa

martedì, dicembre 06, 2005


Santa Rrrrosalia, liberaci dal pizzo... Posted by Picasa

Usura: 23 ordini di custodia cautelare

MESSINA - La polizia di Stato ha eseguito a Messina 23 ordini di custodia cautelare in carcere
nei confronti di presunti componenti di una organizzazione che prestava somme di denaro nel
messinese a tassi usurai che raggiungevano anche il 360% all’anno. I provvedimenti sono
firmati dal gip Maria Angela Nastasi su richiesta del pm Giuseppe Farinella.
Gli indagati sono accusati a vario titolo di usura e riciclaggio, estorsione, spaccio di sostanze
stupefacenti, furto e rapina. Fra le persone arrestate vi sono anche un avvocato civilista e un
commercialista. L’operazione è stata denominata «Grano duro».
Gli agenti della Questura di Messina hanno anche eseguito il sequestro di conti correnti
bancari, automobili, unità immobiliari e società, intestate agli indagati, per un valore
complessivo di circa un milione di euro. L’indagine si è protratta per diverso tempo e gli
investigatori hanno raccolto prove e documenti che proverebbero le responsabilità delle
persone arrestate.
Gli agenti della Squadra mobile hanno notificato due dei 23 provvedimenti a persone già
detenute per altre indagini. L’inchiesta ha consentito alla polizia di fare luce su un vasto giro di
usura messo in atto da operatori commerciali, imprenditori, possidenti e liberi professionisti che
hanno prestato somme di denaro a tassi annui variabili dal 120% sino al 360%.
Per il numero di persone coinvolte e per l’entità dei beni sequestrati, si tratta della più grossa
azione di contrasto al mondo degli usurai che sia stata realizzata a Messina.
Nell’ambito dell’operazione condotta dalla Polizia di Stato a Messina, denominata "Grano
maturo", sono stati eseguiti 23 ordini di custodia cautelare, nei confronti di presunti componenti
di una organizzazione che prestava somme di denaro nel messinese a tassi usurai che
raggiungevano il 360 per cento. Due gli ordini notificati in carcere, due invece le persone
sfuggite all’arresto.
Sono stati arrestati: Antonio Magnisi, 76 anni, imprenditore immobiliare; Salvatore Dominici, 54
anni, imprenditore del settore arredi; Pasquale Romeo, 55 anni, originario di Reggio Calabria e
Giuseppe Benanti, 38 anni, rispettivamente gestore di un’agenzia giochi e scommesse e titolare
di un’agenzia di giochi e scommesse; Orazio Sciabà, 56 anni, imprenditore edile; Santo
Carmelo Sauta, 54 anni, impiegato; Antonino Trovato, 48 anni, gestore di un supermercato;
Mario Selvaggio, 58 anni, commerciante; Nunzio Venuti, 41 anni, detenuto; Nicola Tavilla, 40
anni, pregiudicato; Antonino Puglisi, 42 anni, agente di commercio; Gino La Malfa, 33 anni,
lattoniere; l’avvocato Vincenzo Ocera, 57 anni; un altro titolare di agenzia di giochi e
scommesse, Paolo Tomasello, 37 anni; Rosario Coppolino, un autotrasportatore di 67 anni; il
commercialista Fulvio La Rosa, di 49 anni; un commerciante di tessuti, Eugenio Bonoccorso, di
62 anni; l'imprenditore edile Nello Arena, 45 anni; Giuseppa Cav ò, parrucchiera di 40 anni e
moglie di Tavilla; Angelo Marino, 37 anni, pregiudicato e Angelo Muni, 27 anni, detenuto.

La Sicilia, 5 Dicembre 2005

sabato, dicembre 03, 2005

Alla faccia d chi dice che la mafia nn c'è...

mercoledi 30 novembre 2005

Gela - Incendio doloso danneggia magazzino
comunale
GELA (CALTANISSETTA) - Nuova intimidazione nei confronti
dell’amministrazione comunale di Gela.
Ieri notte alcuni malviventi
hanno tentato di appiccare il fuoco ad un magazzino sul Lungomare
che custodisce camion, decespugliatori ed altri mezzi di proprietà
del comune usati giornalmente dal personale del reddito minimo di
inserimento per curare il verde pubblico. Le fiamme sono state
immediatamente domate ed i danni limitati grazie all’intervento di
una pattuglia delle forze dell'ordine in transito nella zona.
Sull’episodio indaga la polizia. Dieci giorni fa al sindaco Rosario
Crocetta era stata recapitata una lettera di minacce.

Giornale di Sicilia.
Mi è stato chiesto di pubblicare la lettera di Libero Grassi del 1991.Eccola qui.



Lettera di Libero Grassi
Pubblicata sul Corriere della Sera il 30/8/1991, il giorno successivo alla sua uccisione.

La "Sigma" è un'azienda sana, a conduzione familiare. Da anni produciamo biancheria da uomo:
pigiami, boxer, slip e vestaglie di target medio-alto che esportiamo in tutta Europa. Abbiamo 100
addetti: 90 donne e 10 uomini. Il nostro giro d'affari è pari a 7 miliardi annui. Evidentemente è stato
proprio l'ottimo stato di salute dell'impresa ad attirare la loro attenzione.
La prima volta mi chiesero i soldi per i "poveri amici carcerati", i "picciotti chiusi all'Ucciardone".
Quello fu il primissimo contatto. Dissi subito di no. Mi rifiutai di pagare. Così iniziarono le
telefonate minatorie: "Attento al magazzino", "guardati tuo figlio", "attento a te". Il mio
interlocutore si presentava come il geometra Anzalone, voleva parlare con me. Gli risposi di non
disturbarsi a telefonare. Minacciava di incendiare il laboratorio. Non avendo intenzione di pagare una tangente alla mafia, decisi di denunciarli.
Il 10 gennaio 1991 scrissi una lettera al "Giornale di Sicilia" che iniziava così: "Caro estortore...".
La mattina successiva qui in fabbrica c'erano dei carabinieri, dieci televisioni e un mucchio di
giornalisti. A polizia e carabinieri consegnai 4 chiavi dell'azienda chiedendo loro protezione.
Mentre la fabbrica era sorvegliata dalla polizia entrarono due tipi strani. Dissero di essere "ispettori
di sanità". Fuori però c'era l'auto della polizia e avevano grande premura. Volevano parlare a tutti i
costi con il titolare. Scesi e dissi loro che il titolare riceve solo per appuntamento e al momento era
impegnato in una riunione. Se ne andarono. Li descrissi alla polizia e loro si accorsero che altri
imprenditori avevano fornito le medesime descrizioni. Gli esattori del "pizzo", i due che
indifferentemente si facevano chiamare geometra Anzalone, altri non erano che i fratelli gemelli
Antonio e Gaetano Avitabile, 26 anni. Furono arrestati il 19 marzo insieme ad un complice.
Una bella soddisfazione per me, ma anche qualche delusione; il presidente provinciale
dell'Associazione industriali, Salvatore Cozzo, dichiarò che avevo fatto troppo chiasso. Una
"tamurriata" come si dice qui. E questo, detto dal rappresentante della Confindustria palermitana,
mi ha ferito. Infatti dovrebbero essere proprio le associazioni a proteggere gli imprenditori. Come?
È facile. Si potrebbero fare delle assicurazioni collettive. Così, anche se la mafia minaccia di dar
fuoco al magazzino si può rispondere picche. Ma anche a queste mie proposte il direttore
dell'Associazione industriali di Palermo, dottor Viola, ha detto no, sostenendo che costerebbe
troppo. Non credo però si tratti di un problema finanziario, è necessaria una volontà politica.
L'unico sostegno alla mia azione, a parte le forze di polizia, è venuta dalla Confesercenti
palermitana. Devo dire di aver molto apprezzato l'iniziativa SoS Commercio che va nella stessa
direzione della mia denuncia. Spero solo che la mia denuncia abbia dimostrato ad altri imprenditori
siciliani che ci si può ribellare.
Non ho mai avuto paura ed ora mi sento garantito da ciò che ho fatto. La decisione scandalosa del giudice istruttore di Catania, Luigi Russo (del 4 aprile 1991) che ha stabilito con una sentenza che non è reato pagare la "protezione" ai boss mafiosi, è sconvolgente. In questo modo infatti è stato
legittimato con il verdetto dello Stato il pagamento delle tangenti. Così come la resa delle istituzioni
e le collusioni. Proprio ora che qualcosa si stava muovendo per il verso giusto.
Stabilire che in Sicilia non è reato pagare la mafia è ancora più scandaloso delle scarcerazioni dei
boss. Ormai nessuno è più colpevole di niente. Anzi, la sentenza del giudice Russo suggerisce agli
imprenditori un vero e proprio modello di comportamento; e cioè, pagate i mafiosi. E quelli che
come me hanno invece cercato di ribellarsi?
Ora più che mai le Associazioni imprenditoriali che non si impegnano sinceramente su questo
fronte vanno messe con le spalle al muro. La risposta infatti deve essere collettiva per
spersonalizzare al massimo la vicenda.

Si continua a Gela... Posted by Picasa

Ancora Totò Cuffaro (il Campione)

La concessionaria d’automobili Supercar svetta all’imbocco dell’autostrada Palermo – Catania. Bisogna partire da qui per districarsi nella ragnatela di sospetti lanciata dal procuratore nazionale antimafia Piero Grasso sulle protezioni di politici, imprenditori e poliziotti a favore di Bernardo Provenzano, il numero uno di Cosa Nostra. Proprio qui, la mattina del 3 giugno 2001, l’assessore alla Salute del Comune di Palermo Domenico Miceli organizza un incontro elettorale per candidarsi (invano) alle Regionali. Ma non è un incontro qualsiasi. I carabinieri del Ros, appostati, vedono entrare oltre a professionisti e imprenditori, anche il latitante Francesco Di Fresco, Giovanni Di Lisciando e diverse altre persone vicine al padrino di Brancaccio Giuseppe Guttadauro. Il boss, di professione medico, viene da sempre considerato vicino a Provenzano, perchè ne ha operato la moglie: tanto che il capo dei capi gli perdona gli errori del passato, come conferma il pentito Nino Giuffrè.
Da due anni i Ros gli ha messo delle cimici in casa. Tre giorni dopo l’incontro alla Supercar, viene chiesta un’intercettazione urgente anche su Miceli, che a lungo ha frequentato la casa di Brancaccio, fin dai tempi degli studi in chirurgia. Miceli si vanta con il boss di poter intercedere per alcuni favori, come l’assunzione di due medici, tramite un amico che conosce fin dai tempi dell’università, Totò Cuffaro. Durante questi giorni di delicatissime intercettazioni del boss e di Miceli succede però che Guttadauro scopra le otto cimici in casa e le stacchi: un segnale evidente che nella Direzione distrettuale antimafia c’è una talpa. E che qualcuno vuole proteggere il braccio destro di Provenzano, amico di Miceli. Nei guai finisce proprio l’uomo che ha messo le cimici: il maresciallo del Ros Giorgio Riolo. E con lui viene arrestato un altro ex maresciallo del gruppo, il deputato regionale Cdu Antonio Borzacchelli. Anche Borzacchelli conosce Cuffaro dai tempi della prima legislatura Dc del presidente della Sicilia, perché la moglie dell’ex carabiniere era dipendente del partito. Ed è lui secondo quanto riferisce in un interrogatorio Cuffaro, a presentargli Riolo.
Niente di strano se non fosse che nei giorni in cui Guttadauro stacca le microspie, secondo una relazione della Procura di Palermo, Riolo, Borzacchelli e Cuffaro hanno avuto tra loro diverse telefonate. Che incrociate con i tabulati di Miceli, fanno nascere i sospetti della procura sul presidente. Almeno quando viene sequestrato il pc di Miceli che contiene tre file criptati. Uno si chiama “tessere.mdb”, l’altro “elezioni regionali”: e spiegano i meccanismi elettorali di Miceli con tesserati e consegnatari responsabili. Solo che tra i “consegnatari” c’è perfino il latitante Francesco Di Fresco. Ma è il terzo il file più importante: si tratta di un’agenda che riporta il numero di diversi cellulari a uno stesso nome. E’ lì che si scopre che diverse utenze chiamate de Borzacchelli e Riolo appartengono a Cuffaro.
Tra i tanti arrestati, c’è anche Salvatore Aragona, altro medico, pentitosi che dichiara: “Il presidente della regione praticamente mi aveva riferito che c’erano delle indagini in corso nei confronti del Riolo e del Ciuro, notizie che aveva ricevuto da Roma “. Accusato da una parte di sapere che Miceli era indagato e dall’altra che erano indagati pure quelli che lo controllavano, Cuffaro deve affrontare un terzo problema. Perché il Ciuro cui fa riferimento Aragona è il maresciallo Giuseppe Ciuro, condannato il 18 Aprile a quattro anni e mezzo per aver rivelato all’imprenditore Michele Aiello che era indagato. E il fatto è che Aiello, Riolo, Borzacchelli e Cuffaro si conoscono tutti. Seppure per ragioni diverse. Cuffaro prima di tutto perché è un radiologo e la clinica di Aiello è la più rinomata della Sicilia. Secondo perché Aiello he rilevato l’azienda di analisi cliniche in cui la moglie di Cuffaro aveva una quota del 20%, la Ria. Ma ai magistrati interessa un alteriore aspetto di Aiello. Uno più sinistro. Perché è vero, l’ingegnere di Bagheria Michele Aiello nasce come costruttore e si specializza poi nel settore sanitario. Ma fin dal 1994 qualcuno fa il suo nome alle forze dell’ordine come vicino a Cosa Nostra. E il 4 dicembre del 2002 l’ex capomandamento di Caccamo, Nino Giuffrè, fa ritrovare in un barattolo la corrispondenza di Provenzano, dove il Racis di Messina individua cinque lettere del capo dei capi. In una, indirizzata proprio a Giuffrè, c’è scritto: “SENTI ASSIEMI, AL TUO PRESENTE, TI MANDO 21 ML SALDO PER STRADE AIELLO AL TUO PAESE. DAMMI CONFERMA CHE LI RICEVI “. L’ ingegnere si è sempre difeso dicendo che era stato costretto a pagare il pizzo. Ma aggiunge Giuffrè, negli interrogatori del 12 marzo a Palermo che ”Aiello non direi che è una vittima , perchè diciamo che tutto questo fa parte del gioco imprenditoriale, appositamente, che quando si aggiudicano un lavoro e prima di andare a mettere mani in un determinato posto, ci si deve mettere in contatto con Cosa Nostra…”
Secondo la procura i rapporti tra i due erano talmente buoni da ipotizzare che a lungo Provenzano si fosse nascosto nel sottosuolo della clinica attraverso un tunnel. Lo cercano da aprile. Cuffaro è sotto processo per favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra. Forse davvero solo per le sue amicizie pericolose. Tra queste, per la verità, ce n’è un’altra. Assai pesante. Perché è l’intestatario di uno dei suoi cellulari, almeno da quanto risulta dal noto file criptato nel pc di Miceli: si chiama Francesco Campanella. Ex presidente del consiglio di Villabate, Campanella fu l’uomo che firmò i documenti falsi di Provenzano per inviarlo a operarsi a Marsiglia. Arrestato si è recentemente pentito. Campanella può dare l’ennesimo colpo di scena a una serie di processi ancora tutti aperti. Chiarire finalmente le ombre paventate dal procuratore Grasso o infittirle ancora di più. Può farlo lui, o forse l’ancora, l’ennesima talpa dei Ros, rimasta al momento anonima. Quella che l’11 maggio del 2001, alle 14.33, chiamò il cellulare di Domenico Miceli dagli uffici di Monreale.

NEWS SETTIMANALE n, 24 2 novembre 2005

Una volta in un interrogatorio alla domanda sui rapporti tra mafia e politica, Tommaso Buscetta (ex capomandamento di Porta Nuova) risponde: ”Di mafia e politica non si può parlare altrimenti finisce male per tutti: voi sottoterra(G. Falcone) e io al manicomio “.

Sciascia invece scrive: “ Chi non ricorda la strage di Portella della Ginestra, la morte del bandito Giuliano, l’avvelenamento in carcere di Gaspare Pisciotta? Cose tutte, fino ad oggi avvolte nella menzogna. Ed è da allora che l’Italia è un paese senza verità. Ne è venuta fuori, anzi, una regola: nessuna verità si saprà mai riguardo fatti delittuosi che abbiano, anche minimamente, attinenza con la gestione del potere.”