venerdì, febbraio 17, 2006

La Cassazione scagiona i padrini (scandaloso...)

ROMA - La Cassazione piccona il 'teorema Buscetta' - sancito nel primo maxi-processo alla mafia, imbastito da Giovanni Falcone - e afferma senza mezzi termini che i boss che siedono nella 'cupola' di 'Cosa Nostra' non sono automaticamente responsabili di tutti i delitti eccellenti deliberati dal 'gotha' mafioso: il loro ruolo apicale può, tutt' al più, costituire un grave indizio di responsabilità ma non ne è "di per sè prova piena". Inoltre la Suprema Corte - con una sorta di applicazione 'ante-litteram' dei principi della 'Pecorella', seguendo la decisione delle Sezioni Unite su Giulio Andreotti - esorta i giudici di merito ad andarci con i piedi di piombo quando capovolgono in condanna, in secondo grado, un verdetto di assoluzione. Queste indicazioni si leggono nelle 175 pagine delle motivazioni - depositate oggi dalla Sesta sezione penale di Piazza Cavour - in base alle quali, lo scorso 20 maggio, sono state annullate con rinvio le condanne al carcere a vita per 'padrini' del calibro di Bernardo Provenzano, Pippo Calò e Pietro Aglieri. Gli annullamenti disposti dalla Suprema Corte riguardavano 45 imputati - tra i quali capimandamento di rango, killer, fiancheggiatori dei gruppi di fuoco - in relazione al processo 'Tempesta' sui 127 omicidi avvenuti nel palermitano (tra il 1973 e il 1991) durante la cosiddetta 'Seconda guerra di mafia', conclusasi con la vittoria dei sanguinari corleonesi di Totò Riina. Ecco che cosa scrivono gli 'ermellini' a proposito dell'annullamento con rinvio dell'ergastolo a Pippo Calò - ritenuto il cassiere di Cosa Nostra, e capo del mandamento di Porta Nuova - inflittogli per l'omicidio dei carabinieri Mario D'Aleo, Giuseppe Bommarito e Pietro Morici (13 giugno 1983), avvenuto quando il boss era già chiuso in carcere. Dice la Cassazione - che "la prova della sua responsabilità, al pari di altri imputati, viene desunta dai giudici di merito dalla posizione apicale rivestita dall'imputato, traendone la deduzione logica per cui, in base alle regole mafiose (tratteggiate da Buscetta) riconosciute come inderogabilmente operanti a far capo dalla sentenza emessa nel maxiprocesso dalla Corte di Assise di Palermo (17 marzo 1995), era da ritenere storicamente accertato che, almeno fino all'epoca dell'omicidio Lima (marzo 1992), tutti i capi di mandamento dovevano essere necessariamente presenti in caso di deliberazione di un omicidio rientrante nella competenza di quel consesso". Questo assioma - noto come 'teorema Buscetta' - viene ridotto dagli 'ermellini' a "regola comportamentale" dei boss, la cui osservanza deve essere, dalle corti di merito, "accertata" di volta in volta sulla base di "concreti elementi di fatto". Così i massimi togati affermano il principio di diritto per cui "posta l'esistenza di un organismo collegiale di vertice investito del potere di deliberare in ordine alla commissione di fatti criminosi di speciale importanza per la vita di una organizzazione criminale, e in particolare di omicidi di persone di rilievo (delitti eccellenti), l'appartenenza di taluno degli imputati al suddetto organismo ('cupola') può costituire certamente un grave indizio di responsabilità per il fatto criminoso ma non di per sè prova piena di esso". Insomma per condannare un 'padrino' serve la prova che lui "sia stato in concreto informato" della condanna a morte emessa dal concilio dei boss e "abbia prestato il proprio consenso, anche tacito". Bocciata, dunque, la tesi che Calò sebbene detenuto potesse aver fornito il suo 'placet' tramite i familiari che andavano a trovarlo in carcere. La Suprema Corte è più propensa a credere che i tre carabinieri - soprattutto il capitano D'Aleo - siano stati uccisi per solitaria decisione di Totò Riina come "ritorsione contro l'incalzante attività condotta contro la famiglia Brusca". Insomma - visto che il triplice omicidio è del 1983 e che senz'altro l'uccisione di uomini delle forze dell'ordine rientrava nella categoria dei 'delitti eccellentì - la Cassazione nega che il 'teorema Buscetta', la cui operatività è stata riconosciuta da numerose sentenze fino al 1992, sia stata una regola seguita con ortodossia nei 20 anni della spietata 'Seconda guerra di mafia'. Nel caso dell'annullamento, con rinvio, dell'ergastolo a Filippo Graviano per l'uccisione di Giuseppe Fragale, la Cassazione ha ritenuto non sufficientemente indiziante nemmeno la circostanza che il boss fosse "fisicamente presente" all'omicidio. Annullando, con rinvio, l'ergastolo a Provenzano - per gli omicidi di appartenenti alla 'famiglià Bonanno (strage di Misilmeri) - la Cassazione dando credito al pentito Brusca dice che dal 1987, all'interno della 'cupola', si era già registrata "nell'ambito della 'politica internà di Cosa Nostra" un "dissidio", una "incrinatura del patto tra i capi" (Provenzano e Riina), per cui non tutti i boss devono essere considerati mandanti dei delitti eccellenti compiuti, quanto meno, dal 1987 in poi. Quanto all'applicazione di principi - in parte formalizzati dalla 'Pecorella' - sono gli stessi supremi giudici, che pure hanno tanto osteggiato questa normativa, a dire che il giudice ha un "obbligo rafforzato di motivazioni in caso di ribaltamento della sentenza assolutoria di primo grado". In tale ipotesi - conclude la sentenza 6221 - "grava sul giudice d'appello, tanto più in mancanza di rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, un obbligo rafforzato di motivazione che si sostanzia anche nel compito di confutare specificamente le ragioni che avevano condotto il primo giudice ad una decisione assolutoria, tenendo altresì conto dei contributi eventualmente offerti dalla difesa nel giudizio di appello".
16 Febbraio 2006

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