mercoledì, novembre 22, 2006

Parla Sonia Alfano

“A pensarci bene, quel tesserino da professionista alla memoria di mio padre avremmo dovuto rifiutarlo. Mio padre faceva il giornalista ma non era un giornalista. Perché da vivo i giornalisti lo avevano lasciato solo. Perché il quotidiano per il quale scriveva, la Sicilia di Catania, lo censurava. Non pubblicava le notizie più inquietanti. Il livello di amarezza che ha dovuto subire mio padre prima di morire lo abbiamo scoperto solo da poco. Da quando ci hanno restituito i computer, gli hard disk con tutto quel che scriveva mio padre. Ci sono articoli mai pubblicati”. Il grido di dolore di Sonia Alfano al gruppo di lavoro per l’informazione di Contromafie è certo il più alto. Il più doloroso. Almeno per noi giornalisti. Per noi siciliani, un atto d’accusa che c’interpella personalmente. Beppe Alfano non aveva quel tesserino mentre indagava sulla latitanza dorata del boss dei boss catanese Nitto Santapaola e sui loschi affari di mafie e politica nel Barcellonese. Un quotidiano locale, sprezzante, scrisse in prima pagina “Ucciso il professor Alfano”. C’è poco da prendere le distanze da certi editori e dagli autori di certi titoli. Di fronte alla verità negata dei giornalisti uccisi dalle mafie tutti abbiamo qualcosa di cui vergognarci. Nessuno è senza colpa. Qui - tra le volte dell’università internazionale “Angelicum” che i padri domenicani hanno dedicato a san Tommaso d’Aquino, dove riecheggia il motto di san Domenico “Veritas” – dove si celebrano gli Stati Generali dell’Antimafia, gli unici innocenti sono loro, i parenti delle vittime. C’è il padre dell’agente Nino Agostino ucciso insieme alla moglie incinta. Papà Vincenzo non taglia la barba da quel 5 agosto dell’89 e sbotta: “Se lo Stato non risponde, per sapere chi ha ucciso mio figlio e mia nuora dovrò rivolgermi all’Antistato?”. Punto interrogativo trascurato in quasi tutte le ricostruzioni. Ma poco importa. Rabbia, dolore, provocazione ci sono tutte. Le colpe, in questo come in tanti altri casi, sono di chi mette a tacere, non di chi chiede giustizia e verità. Passi perduti nel chiostro domenicano alla ricerca di una veritas non pietosa ma piena e soddisfacente. Incontri Daniela Marcone, figlia del direttore dell’ Ufficio del Registro di Foggia, ucciso undici anni fa perché aveva iniziato verifiche e controlli sulle proprietà immobiliari. Verifiche che avrebbero portato a conoscere con esattezza, ad esempio, a chi appartengono effettivamente quei campi sui quali piegano la schiena immigrati irregolari e clandestini, bianchi e neri, uomini e donne, ridotti in schiavitù. Dove spariscono a decine quelli che vorrebbero serbare almeno la dignità. Per la giustizia il direttore Marcone è stato ucciso da un suo sottoposto che dopo aver trascorso qualche anno in carcere è tornato libero in attesa di giudizio. Ma a ben altro giudizio è stato poi destinato giacché è morto in un incidente stradale. Gli investigatori del Gico della Finanza, task-force antimafia delle fiamme gialle, hanno scritto a chiare lettere che Marcone è stato ucciso per essere rimasto solo nel suo desiderio di imporre un’etica dell’amministrazione pubblica in una pubblica amministrazione dove sono in molti a chiudere uno o tutte e due gli occhi pur di far carriera in santa pace. Luca Tescaroli, pm antimafia a Roma dopo aver tentato di scoprire a Caltanissetta i mandanti politici delle stragi di Capaci e via D’Amelio, viene qui all’Angelicum per puntare il dito contro quelli che definisce gli “uomini-cerniera” che stringono l’alleanza tra le zone grigie di società, economia e politica con le cosche mafiose. “Sono politici, banchieri, professionisti il cui scopo è quello di mascherare operazioni di riciclaggio; il loro contributo all’associazione mafiosa è fondamentale. Un esempio per tutti, Michele Sindona. Purtroppo questi concorrenti esterni non sono equiparati ai mafiosi nelle attribuzioni delle pene”. Tempi duri per gli innocenti riuniti all’Angelicum. Dario Montana è il fratello di Beppe, commissario di polizia ucciso dalla mafia mentre era sulle tracce di Bernardo Provenzano. Qui all’Angelicum ha ricevuto la telefonata del suo avvocato. La prefettura lo ha appena avvertito – singolare tempestività – che il risarcimento è bloccato perché gli uffici del governo non hanno riscontrato nel dispositivo di sentenza l’attribuzione formale dell’associazione mafiosa. Dario è un dirigente della Regione Sicilia, il fratello è medico: quest’ulteriore ritardo non inciderà sulla loro vita privata. “Penso invece – mi sussurra Dario con un velo di pudore per quelle istituzioni dello Stato per le quali il fratello ha immolato la giovane vita – ai sopravvissuti dei ragazzi delle scorte. Giovani, 28, 29 anni, che lasciano mogli giovanissime, figli piccolissimi… come faranno?”. Non sempre i processi portano a galla la verità. Nel nostro paese resta impunito oltre l’ottanta per cento dei reati denunciati. In Giappone solo il dieci per cento. E così gli innocenti, le Sonia, le Daniela, i Dario, vedono uccisi due, tre, quattro volte i loro cari colpiti dalle mafie. E c’è chi non prova alcuna vergogna nell’utilizzare le difficoltà della giustizia come strumento di lotta politica. Nell’ultima puntata di Anno Zero, condotto da Michele Santoro, proprio alla vigilia di Contromafie, il governatore della Sicilia, Totò “vasa vasa” Cuffaro, si è rivolto senza alcun rispetto ai familiari degli imprenditori Giuseppe e Paolo Borsellino, padre e figlio, uccisi da Cosa Nostra per aver tentato di spezzare il controllo monopolistico delle cave e del calcestruzzo: “Secondo i dati della Prefettura, Borsellino non è vittima di mafia”. Il pubblico di Anno Zero si è indignato a tal punto da tributare un applauso ai parenti di quell’uomo onesto ucciso dalla mafia e del padre giustiziato per impedirgli di testimoniare la verità. Due morti annunciate e dimenticate. Ignorate dalle istituzioni, sminuite da un presidente della regione inquisito per favoreggiamento agli affari delle cosche mafiose. Il presidente Cuffaro, ovviamente, non ha detto che anche grazie a quei due omicidi “pedagogici” Cosa Nostra mantiene il monopolio su cave e costruzioni. Totò “vasa vasa” coltiva altri interessi. Di indignazione e verità laica parla il presidente emerito del tribunale dei Minori di Catania, Giovambattista Scidà. Parla delle responsabilità di chi persegue non i denunciati ma i denuncianti. Parla di un patto scellerato i cui frutti giungevano – e giungono ancora oggi - ogni giorno nelle aule di giustizia minorile nelle quali per decenni Scidà ha dovuto amministrare la legge senza mai dimenticare pietà, compassione e amore di verità. Amore che per questo vecchio coraggioso è un’autentica passione laica, civica, civile. Una passione raramente condivisa. E laddove non alligna questa passione s’infiltra la mafiosità. Una mafia che non s’accontenta di coppole storte, mitra e lupare. E’ una mafia sommersa, spesso indistinguibile, indefinibile e per questo ancora più potente. A chiedere Veritas e l’abolizione della rilevanza penale nella diffamazione c’è Carlo Ruta. Uno storico, non un giornalista, di Ragusa che ha scritto di mafia e qui niente di grave. Poi ha preso a parlare di responsabilità di magistrati e banchieri, lì è iniziata la sua drammatica avventura giudiziaria con condanne detentive e risarcimenti. “Il fatto è che oggi qui parliamo di mafie che si chiamano Cosa Nostra, ‘ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita. Ma c’è una mafia che non si chiama. Una mafia senza nome che è la più potente tra tutte e non tollera chi scava per portare alla luce la verità”. Sonia Alfano torna a chiedere lo scioglimento del comune di Barcellona. Chiede di spezzare le cerniere e castigare gli uomini cerniera. Implora i giornalisti “Fate il vostro dovere. Raccontate la verità, tutta la verità. Mio padre è morto anche per voi. Se non manterrete i riflettori accesi su quel che accade ancora oggi nei territori occupati dalla mafia renderete inutile il suo sacrificio. Pensate che dentro ognuno di voi c’è un pezzetto del suo sacrificio. Siatene degni”.
Fonte: articolo21.com

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