martedì, gennaio 23, 2007

Omaggio a Padre Puglisi

E' stato toccante l'Omaggio a Padre Puglisi "Nel nome di Dio", il Dramma in tre atti di Carmine Pagano che un pubblico attento ha potuto vedere nel cineteatro don Bosco di Bova Marina domenica sera. In una zona di Palermo un sacerdote lotta per il ripristino dei valori morali mettendosi in contrapposizione con la mafia: è la storia di padre Giuseppe Puglisi, il parroco del quartiere Brancaccio ucciso il 15 settembre 1993. Mentre si snoda la triste vicenda di un giovane entrato nel giro dello spaccio di droga, viene abilmente tracciato uno spaccato del quartiere alle prese con la piccola delinquenza e gli interessi della mafia che trova, in questo habitat, manovalanza da assoldare a basso costo e futuri "uomini d'onore". L'importanza delle istituzioni, della funzione educatrice della scuola e delle infrastrutture culturali rappresenta il punto nodale del costante impegno umano, sociale e religioso del parroco siciliano. Vi è stata l'occasione di incontro e di riflessione molto importante con la presenza di suor Carolina, originaria della Campania, che ha lavorato per anni a fianco di Padre Puglisi. A suor Carolina che ora continua la sua opera a Bosco di Bovalino abbiamo faftto alcune domande. Cosa ha segnato la vita di don Pino Pugliesi a Brancaccio? «La vita e la morte di don Puglisi segnano la rinascita di un angolo di Sicilia impregnato di mafia e povertà: un sacerdote che ha scelto di non starsene seduto a guardare. Giustizia e solidarietà: due parole chiave». Come era Brancaccio? «Brancaccio: una parrocchia di periferia, in un quartiere degradato con "edilizia famelica". Don Pino conosce quelle zone e conosce anche il peso della mafia nella vita pubblica. E della mafia conosce i gesti, i riti, gli uomini. E pensa, con tutto il cuore, che la mafia è il peccato. Gente che guarda e vede ma non parla perché nel cuore c'è paura: Dietro persiane chiuse Brancaccio osserva. Don Puglisi non ci sta! Il sacerdote chiama delle religiose per collaborare in progetti di solidarietà a favore dei poveri, di gente che vive coni topi e non ha da mangiare. Una povertà difficile da ammettere per chi ne è circondato o se la ritrova addosso: prevale un silenzioso (presunto?) senso di dignità che nasconde la volontà di risalire la china andando contro il pensiero comune che attanaglia la società siciliana del quartiere. Don Puglisi ha le idee chiare: "La prima cosa da fare è rimboccarsi le maniche, il discorso pedagogico con il giovane e l'adulto è molto difficile" afferma il sacerdote a un incontro organizzato dalla Fuci a Brancaccio il 18 febbraio 1993 "dobbiamo agire per aiutarli ad avere un senso della propria dignità, della propria vita. Le parole vanno convalidate dai fatti". Il suo discorso in quell'occasione diventa il suo manifesto: forse, qualche spiraglio di luce inizia ad aprirsi». Il vostro era un vero servizio per la società? Cosa ricorda degli ultimi momenti di don Pino? «Si, in pratica noi rendevamo un servizio alla società senza nulla chiedere in cambio in un quartiere dimenticato dalle istituzioni; aprimmo la porta della stanza dove vi era il corpo di padre Puglisi disteso in una lettiga e coperto sino a tutto il petto. Aveva la testa leggermente reclinata verso il lato destro ed era evidente il colpo di pistola alla nuca sotto l'orecchio sinistro. Questa ultima immagine non la potrò mai scordare e tante volte il mio pensiero si è fermato in quell'attimo in cui i killer si avvicinano a lui per ucciderlo. Ci eravamo detti alcuni giorni prima che sapevamo di correre dei pericoli, ma eravamo disposti ad accettare anche il rischio di morire per una giusta causa come la nostra. Ogni volta che penso a quel colpo di pistola che lo fa stramazzare a terra la mia dimensione umana si ribella, un sussulto prende il mio corpo, la rabbia diventa padrona di me perché non riesco ad accettare l'idea che una persona dedita all'amore per il prossimo possa fare una simile fine».
Fonte: quotidiano di Calabria

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