mercoledì, aprile 18, 2007

Di Gati parla...

Caltanissetta - L'imprenditore di Campofranco Angelo Schillaci era il tramite che metteva in contatto i boss di Cosa Nostra della provincia Agrigento con il capo della mafia siciliana Bernardo Provenzano. Lo ha detto ieri mattina il collaboratore di giustizia Maurizio Di Gati, 40 anni, di Racalmuto, al processo che si celebra in Tribunale a carico di 4 ex presunti postini di Provenzano delle province di Agrigento, Caltanissetta e Ragusa.
Di Gati è stato citato dal p.m. Rocco Liguori nel processo che vede accusati di associazione mafiosa Alessandro Farruggio, che gestisce una macelleria a Montedoro, i fratelli Gioacchino e Roberto Ferro di Canicattì, imprenditori (tutti e tre detenuti dal gennaio 2005 quando furono coinvolti nel blitz Grande Mandamento) e l'imprenditore agricolo Salvatore Martorana originario di Casteldaccia ma da anni residente a Vittoria. Di Gati ha raccontato ai giudici del Tribunale il perché del suo pentimento («mentre ero latitante mia figlia mi scrisse una lettera dicendo che se morivano tutti i carabinieri sarei potuto tornare a casa»), ha ricordato i suoi trascorsi alla reggenza della cosca mafiosa di Racalmuto dal «1991 al 26 novembre 2006 quando decisi di costituirmi», il suo ruolo di capo di Cosa Nostra nell'Agrigentino dal maggio del 2000 fino al 2002, e poi la sostituzione con Giuseppe Falsone, di Campobello di Licata, attualmente latitante.
«Conosco Falsone dal 1995 - ha ricordato il collaborante di Racalmuto - e ci siamo incontrati più volte durante la nostra latitanza. Non abbiamo mai avuto contrasti, tranne quando ci fu da scegliere il capo dell'Agrigentino. Una volta incontrai Falsone alla presenza di suo fratello Calogero, ma non me lo presentò ritualmente come uomo d'onore».
Sarebbe stata la cosca nissena di Cosa Nostra, in particolare le famiglie di Campofranco e Montedoro, a consentire il passaggio dei famigerati «pizzini» che incoronarono Falsone reggente di Cosa Nostra dell'Agrigentino, ha detto Di Gati, tramite Angelo Schillaci, di Campofranco e Vincenzo Parello di Favara. «In pratica Benedetto Spera e Antonino Giuffrè sponsorizzavano me come reggente di Agrigento - ha ricordato Di Gati - mentre Bernardo Provenzano aveva indicato Falsone. E alla fine passò la sua decisione», anche perché la maggior parte dei capi delle famiglie dell'Agrigentino erano con Falsone e con Provenzano, del quale avevano sposato la linea della sommersione. Di Gati ha detto che il favarese Vincenzo Parello è stato indicato come il più stretto collaboratore di Giuseppe Falsone.
Circa gli imputati del processo, Maurizio Di Gati ha detto che dopo alcune operazioni antimafia nell'Agrigentino, Falsone voleva fare «camminare» i fratelli Ferro di Canicattì per le estorsioni, ma non se ne fece nulla perché Provenzano li faceva muovere riservatamente per sue esigenze. Il pentito di Racalmuto ha pure indicato Alessandro Farruggio come componente della famiglia mafiosa di Canicattì, anche se risiedeva a Montedoro, e che lo stesso Farruggio (dopo essere stato posato nel 1999 durante la reggenza Fragapane) sarebbe tornato attivo a tal punto da essere contattato e informato da Giuseppe Falsone prima degli omicidi di Diego Guarneri e Vincenzo Collura avvenuti a Canicattì.
Infine alla domanda del presidente del collegio Di Giacomo Barbagallo sulla conoscenza del successore di Provenzano al vertice della Cosa Nostra siciliana, dopo l'arresto del boss corleonese dell'11 aprile 2006, Di Gati non ha saputo fornire indicazioni. Si è solo limitato a dire: «Fu un durissimo colpo che ci scombussolò...».
Fonte: La Sicilia

1 commento:

Anonimo ha detto...

non bisogna mai sdoppiare la realtà, di mezzo va solo la famiglia; che senza colpa si sente emarginata e diversa.
e che per colpa delle vostre insinuazione compie una vita che non può definirsi normale.