domenica, dicembre 09, 2007

Un po' di storia...

Alle prime luci dell'alba del 20 dicembre 1926, Corleone si era risvegliata in stato d'assedio. Poliziotti e Reali Carabinieri, armati fino ai denti, bloccarono il paese, impedendo a chiunque di uscirne o di entrarne. Altre squadre, aiutate dal comandante dei vigili urbani Liborio Ansalone, bussavano energicamente alle porte di alcune case, segnate su fogli di carta, con tanto di numeri civici e di personaggi che vi abitavano. «Per ordine di Sua Eccellenza il Prefetto Cesare Mori, vi dichiaro in arresto!», diceva il capopattuglia. Poi, attorno ai polsi di ogni ricercato, scattavano le manette. Dovevano essere 150, ma in casa ne trovarono meno della metà. Gli altri erano fuggiti per tempo, chi a nascondersi tra le montagne e chi a cercare «protezione» in America. Tra quest'ultimi c'era anche Marcellino Francesco Binenti, con cui la locale sezione del Fascio aveva "flirtato" per lungo tempo. «Indicato come uomo di rispetto perché molto vicino al Circolo agrario che, secondo la polizia, era in realtà covo di mafiosi... Binenti... era riuscito a metterci di mezzo il mare, a trasferirsi negli States. I suoi compaesani raccontano che lì si era bene inserito ed era riuscito con altri soci a mettere in piedi una redditizia casa di funerali dove si sistemavano e imbellettavano i cadaveri prima di condurli all'ultima dimora», scrive Nonuccio Anselmo nel secondo volume del suo «Corleone Novecento» (1999).
D'altra parte, a partire dalla fine dell'800, la mafia era stata esportata negli Stati Uniti d'America proprio dai mafiosi siciliani emigrati. E sono ormai ampiamente provati gli stretti legami tra i mafiosi in America e i mafiosi in Sicilia, anche in quegli anni. Per esempio, quando, tra il 1901 e il 1904, il boss mafioso Vito Cascio Ferro dalla Sicilia si trasferì a New York, s'inserì subito nella "cosca" capeggiata da Giuseppe "Piddu" Morello, originario di Corleone. Secondo John Dickie (Cosa Nostra, Laterza Roma-Bari): «La composizione della banda Morello ci offre importanti informazioni sul livello di coordinamento tra gli uomini d'onore in Sicilia. Morello era di Corleone, Cascio Ferro della vicina Bisacquino. Fontana era di Villabate, più vicina al capoluogo regionale. Altri membri provenivano da Partinico, più lontana verso ovest. (...) La banda di Piddu Morello costituiva un avamposto per gli uomini d'onore particolarmente intraprendenti dell'intera provincia di Palermo (e non solo)».
A Corleone, invece, gli arrestati - in gran parte appartenenti al "gotha" della mafia - sfilarono incatenati per il corso principale, fino al grande spiazzo del «Piano del Borgo» (l'attuale piazza Falcone e Borsellino), dove furono fatti sostare, in attesa di essere tradotti all'Ucciardone. Un «colpo di teatro», come piaceva al prefetto Mori. I "fratuzzi" di Corleone, infatti, costituivano una delle più potenti organizzazioni criminali della provincia, che si erano macchiati di numerosi delitti. Nell'intendimento di Mori, quindi, la "retata" di Corleone doveva essere "spettacolare" e servire da monito ai mafiosi dell'intera provincia. Il prefetto, tra l'altro, elaborò anche un piano per costringere gli arrestati a confessare i loro delitti e i latitanti a consegnarsi. «Sfruttando la mentalità del siciliano, (…) arrestava i familiari... o inviava a casa, se essa era abitata solo dalla moglie o dalla madre del latitante, dei poliziotti facendoli trattenere per intere giornate, contando sull'orgoglio e il senso dell'onore del mafioso siciliano. Le retate di fatti non furono efficaci di per sé, ma lo furono utilizzando proprio questo ricatto psicologico», scrive Marzia Andretta in un saggio sui rapporti tra mafia e fascismo. In questa «caccia al mafioso», non mancarono abusi e degenerazioni da Santa Inquisizione. Bastava il semplice sospetto di appartenere ad una famiglia mafiosa, oppure una "provvidenziale" lettera anonima, per essere arrestati, torturati, processati e deportati in un'isola. Chi "pagò" a distanza di 19 anni il "crimine" di avere indicato agli uomini di Mori le case dei "fratuzzi", durante la famosa "retata", fu il comandante dei vigili urbani Liborio Ansalone. Il 13 settembre 1945, infatti, fu assassinato dalla mafia in piazza Nascè con tre colpi di fucile.
Fonte: La Sicilia

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