venerdì, marzo 28, 2008

Che paese siamo... Quando capiremo...

L'amico del killer che uccise Falcone, i notabili sotto processo o assolti per cavilli, i parenti stretti dei padrini. Tutti i nomi nelle liste di Udc, Pdl e Pd. Ecco il peso dei boss nelle elezioni. Se le cose andranno come devono andare, se in Sicilia l'Udc supererà la soglia dell'8 per cento dei voti, nel prossimo Senato siederà un uomo che Giovanni Brusca, il capomafia killer del giudice Giovanni Falcone, considerava "un amico personale". Si chiama Salvatore Cintola, ha 67 anni, è laureato in lingue e in vita sua è stato prima repubblicano, poi socialdemocratico e quindi socialista. Per qualche settimana ha anche militato in Sicilia Libera, un movimento indipendentista creato nel '93 per volere del boss Luchino Bagarella. Ma alla fine ha scoperto una vocazione per il centro ed è passato alla corte di Totò Cuffaro diventando deputato regionale sull'onda di migliaia di preferenze (17.028 nel 2006). Due anni fa ad Altofonte, raccontano le intercettazioni, la sua campagna elettorale era stata condotta pure dagli uomini d'onore, ma farsi votare dalla mafia non è un reato. Frequentare i boss neppure. E così la posizione di Cintola, iscritto per ben quattro volte nel giro di 15 anni sul registro degli indagati della procura di Palermo, è stata come sempre archiviata. Cintola, numero quattro del partito di Casini nella corsa a Palazzo Madama, può insomma tentare liberamente il gran salto in Parlamento. E se ce la farà si troverà in compagnia di una foltissima pattuglia di amici, parenti, soci, complici veri, o presunti, di mafiosi, 'ndranghetisti e camorristi. Sì perché mentre Confindustria espelle non solo i collusi, ma persino chi paga il pizzo (persone cioè che codice alla mano non commettono un reato, ma lo subiscono), Udc, Pdl, e, in misura minore, il Pd, di fronte al rischio mafia chiudono gli occhi. Nelle tre regioni del sud, Sicilia, Calabria e Campania, quello della criminalità è infatti un voto organizzato, al pari di quello delle associazioni dei precari (voti in cambio dei rinnovi dei contratti pubblici) o del volontariato (voti contro finanziamenti). Quanto pesi dipende dalle zone. In alcuni comuni della Calabria, ha spiegato il pm Nicola Gratteri, sposta fino al 20 per cento dei consensi. Numeri analoghi li fornisce a Napoli il sociologo Amato Lamberti che parla di una "joint venture criminale tra camorristi, imprenditori spregiudicati e e politici affaristi, in grado di orientare su tutta la regione il 10 per cento dell'elettorato". Mentre a Palermo, il vicepresidente della commissione antimafia Beppe Lumia (Pd), spiega: "I voti che Cosa nostra controlla sono circa 150mila. Sono una sorta di utilità marginale che, indipendentemente dai sistemi elettorali, serve per raggiungere gli obiettivi: o la quota dell'8 per cento al Senato, o la vittoria complessiva in caso di testa a testa. Solo alla fine della campagna elettorale, comunque, chi opera sul territorio può rendersi conto delle scelte delle cosche. È a quel punto che i mafiosi lanciano segnali: sanno di essere forti e lo fanno pesare". Già, i segnali, ma quali? I colloqui intercettati durante le ultime consultazioni narrano che Cosa nostra, quando si vede richiedere il voto, sceglie spesso la linea dell'understatement. "Allora noi ci muoviamo. Però con riservatezza, come merita lui, con molta pacatezza, capisci (altrimenti) gli facciamo danno", dicevano nel 2001 i mafiosi di Trabia a chi domandava loro un appoggio per la candidatura di Nino Mormino, l'ex vice-presidente della commissione Giustizia della Camera, oggi lasciato in panchina dal Pdl. Non è insomma più epoca di evidenti passeggiate sotto braccio con il capomafia del paese. E a Palermo, per accorgerti di cosa sta succedendo, devi saper identificare i nomi e i volti di chi distribuisce manifestini o santini elettorali. Per le politiche del 2006, per esempio, tra ragazzi del motore azzurro, l'organizzazione voluta da Marcello Dell'Utri (condannato in primo grado per concorso esterno e in secondo per tentata estorsione), figurava tutta la famiglia di Rosario Parisi, il braccio destro del boss Nino Rotolo, a cui era stato pure delegato il compito di curare uno dei tanti gazebo berlusconiani. Nel quartiere popolare della Kalsa, invece, fino a venti giorni prima delle amministrative non si vedeva un manifesto. Poi, una bella mattina, sulla saracinesca del negozio vuoto del più importante latitante della zona qualcuno aveva appeso un' immagine del sindaco Diego Cammarata (verosimilmente all'oscuro di tutto). Era il via libera. Mezz'ora dopo i muri dell'intero quartiere, come gli abitanti, parlavano solo di lui. Non deve stupire: la mafia, anzi le mafie, sono ormai laiche, non sono a prescindere di destra o di sinistra, e prima della chiamata alle urne fanno dei sondaggi. Come ha raccontato il pentito Nino Giuffrè l'organizzazione ha uomini ovunque in grado di percepire gli umori dell'elettorato. Poi, quando diventa chiaro chi può vincere, stringe accordi con chi è disponibile al dialogo. O imponendo candidature, o offrendo voti in cambio di soldi, appalti o favori. Anche per questo, e non solo per distrazione, nelle liste oggi c'è finito di tutto. In Sicilia, per esempio, presentare Cuffaro, condannato in primo grado a 5 anni per favoreggiamento, è stato come segnare una svolta. Cintola a parte, l'Udc fa correre alla camera Francesco Saverio Romano, tutt'ora indagato per concorso esterno; Calogero Mannino, imputato davanti alla corte d'appello di Palermo; e Giusy Savarino, che solo un mese fa ha visto il Tribunale inviare, al termine del processo 'Alta Mafia', alcuni atti che la riguardano alla procura. Secondo i giudici dalle intercettazioni e dai verbali emerge come nel 2001 lo scontro sulla sua candidatura alle regionali tra suo padre, Armado Savarino, e l'ex assessore Udc, Salvatore Lo Giudice, poi condannato a 16 anni di reclusione, sia stato risolto dalla mediazione del boss di Canicattì, Calogero Di Caro. Certo, si può benissimo concordare con Pier Ferdinando Casini, il quale di fronte alle polemiche, fin qui limitate al nome di Cuffaro, ripete "non è giusto che le liste le faccia la magistratura". Resta però il fatto che il numero di suoi candidati risultati in rapporti con uomini di Cosa nostra, o coinvolti a vario titolo in indagini per mafia, è altissimo. Troppi per ritenere che le accuse lanciate dai pentiti, secondo i quali il voto per il partito di Cuffaro negli ultimi anni sarebbe stato compatto, siano del tutto campate in aria. In questa situazione, con la magistratura che non può intervenire perché per arrivare al processo ci vuole (giustamente) la prova dell'accordo con i mafiosi, a denunciare e bonificare ci dovrebbe pensare la politica. Il tentativo della commissione Antimafia di far approvare, per iniziativa del senatore di Forza Italia Carlo Vizzini, un codice etico che impedisse la presentazione di candidati collusi almeno alle amministrative del 2007 è però rimasto lettera morta. Al primo febbraio del 2008 su 103 prefetture, solo 86 avevano inviato alla commissione una fotografia di quello che era accaduto nelle urne sei mesi prima. E stando a quanto risulta dai documenti che 'L'espresso' ha letto, mancavano, tra l'altro, all'appello le risposte delle provincie di Avellino, Caltanissetta, Enna, Messina, Palermo, Reggio Calabria, Taranto e Trapani. I partiti avversari poi tacciono tutti. Il Pdl, nonostante le polemiche contro il "cuffarismo e il clientelismo", è prudentissimo. Anche perché gli azzurri in lista non si sono limitati a ricandidare il senatore Pino Firrarello, condannato in primo grado per turbativa d'asta aggravata e ora sotto inchiesta per concorso esterno, o l'ex sottosegretario Antonio D'Alì, ex datore di lavoro del superlatitante Matteo Messina Denaro, e oggi accusato dall'ex prefetto di Trapani Fulvio Sodano di aver voluto il suo trasferimento per fare un piacere a Cosa nostra (sulla vicenda è in corso un'indagine e un processo per diffamazione). Negli elenchi fa capolino pure la new entry Gabriella Giammanco, ex aspirante velina, volto giovane del Tg4, ma soprattutto nipote di Vincenzo Giammanco, definitivamente condannato come socio e prestanome di Bernardo Provenzano. E poi ci sono tutti gli altri. A partire da Gaspare Giudice, assolto in primo grado dalle accuse di mafia con una sentenza in cui il tribunale sostiene di aver però "verificato con assoluta certezza" l'appoggio datogli da Cosa nostra nel 1996 e "con grandissima probabilità" anche nel 2001. Per arrivare a Renato Schifani, considerato in pole position dal 'Giornale' come futuro ministro degli Interni, sebbene negli anni '80 sia stato a lungo socio, assieme all'ex ministro Enrico La Loggia, della Siculabrokers: una compagnia in cui figuravano anche Nino Mandalà, futuro boss di Villabate, e Benny d'Agostino, imprenditore legato per sua ammissione al celebre capo di tutti i capi, Michele Greco. Insomma, meglio non discutere di mafia. Un po' come fa il Pd messo in imbarazzo dalle proteste di Beppe Grillo e della Confindustria, quando con un colpo di mano aveva tentato di escludere dalle liste Beppe Lumia. Dietro a quella scelta non è difficile vedere l'ombra del grande avversario di Lumia, il dalemiano Mirello Crisafulli, filmato mentre discuteva, dopo averlo baciato, di appalti e favori con i boss di Enna, Raffaele Bevilacqua. Da quando nel 2007 Lumia, condannato a morte da Cosa nostra, aveva definito la sua candidatura inopportuna, Crisafulli, grande amico di Cuffaro, non lo salutava più. Poi in lista c'era finito solo Crisafulli e Lumia era stato recuperato come numero uno al Senato solo quando era diventato chiaro che stava per passare con Di Pietro. In compenso tra gli aspiranti deputati del Pd è comparso Bartolo Cipriano, ex sindaco e poi consigliere del comune messinese di Terme Vigliatore, sciolto per mafia nel 2005. Meglio vanno le cose in Calabria, dove le liste di Veltroni, capeggiate dall'ex prefetto De Sena sono in buona parte pulite (al contrario di quanto era accaduto con le regionali quando la 'ndrangheta votò per il centrosinistra). Tra i democratici suscita qualche perplessità principalmente il nome di Maria Grazia Laganà, la vedova di Francesco Fortugno, il vice-presidente della regione ucciso dai clan, sotto inchiesta per truffa ai danni dello Stato nell'ambito delle indagini sulle infiltrazioni mafiose alla Asl di Locri. Qui, come in Campania, la battaglia con il centrodestra si profila in ogni caso all'ultimo voto. E il Pdl candida al Senato (decimo posto) addirittura Franco Iona, cugino primo del boss Guirino Iona, capo dell'omonima cosca crotonese ora in carcere dopo anni di latitanza. Nel 2005 Iona non aveva potuto correre per le amministrative con l'Udeur proprio a causa della sua ingombrante parentela. Ora, nonostante le proteste del presidente della commissione Antimafia Francesco Forgione, Iona si dà da fare per raccogliere voti e ribadisce di essere incensurato. Difficile comunque che ce la faccia, al contrario di Gaetano Rao, numero 17 del partito di Berlusconi e Fini alla Camera, e soprattutto nipote di don Peppino Pesce, vecchio boss dell'omonima e potentissima cosca di Rosarno. Per uno strano scherzo del destino Rao si ritrova candidato assieme ad Angela Napoli (An), membro della commissione Antimafia e feroce avversaria della 'ndrangheta. La Napoli, insomma, ingoia amaro anche perché con lei sono candidati Pasquale Scaramuzzino, l'ex sindaco di Lamezia Terme, un comune sciolto nel 2002 dal governo per mafia in seguito a una sua battaglia, e Giuseppe 'Pino' Galati, allora leader del Ccd: un partito che l'attaccava a tutto spiano. Anche in Campania, dove solo nella provincia di Napoli, sono stati sciolti 15 comuni (in prevalenza di centrosinistra) dal 2001 a oggi, c'è incertezza. Alle prese con l'emergenza rifiuti il Pd pare essersi mosso con relativa cautela, anche perché scottato dalle indagini sul clan Misso e i suoi rapporti con la Margherita. Tutt'altra storia sono invece le liste degli avversari. In Parlamento entrerà Sergio De Gregorio, l'ex dipietrista subito convertito a Berlusconi, indagato per riciclaggio dopo che sono stati scoperti suoi assegni in mano a Rocco Cafiero detto ''o capriariello', un contrabbandiere considerato organico al clan Nuvoletta. Con lui ci sarà Mario Landolfi (An), ora costretto a fronteggiare l'accusa di essere stato appoggiato nel 2006 da un manipolo di camorristi. E c'è pure Nicola Cosentino, uno che la mafia se l'è trovata suo malgrado in casa, visto che uno dei suoi fratelli ha sposato la sorella del boss, detenuto al 41 bis, Peppe Russo, detto 'o padrino'. Insomma, c'è da stare tranquilli. Comunque finiranno le cose il 13 aprile avremo un Parlamento specchio del paese. Peccato solo che a essere riflessa, almeno nel sud, sarà anche la parte peggiore.

Fonte: L'Espresso

Dopo 22 anni la denuncia

Palermo, 26 mar. - L'ultima denuncia e' proprio di questa mattina. Un imprenditore palermitano si e' presentato in questura e ha raccontato 22 anni di vessazioni: dal 1986 la sua azienda ha pagato regolarmente il pizzo, prima suo padre e poi lui. Ma non ne puo' piu'. E stamattina ha deciso di aderire al gruppo sempre piu' numeroso degli imprenditori che si rivoltano alla mafia. Fausto Amato, avvocato del coordinamento creato dal Centro Pio La Torre per aiutare le vittime dei boss, ha raccontato la sua esperienza a una platea intervenuta nei locali della Fondazione Banco di Sicilia per la presentazione di "Mai piu' soli", il libro bianco della lotta contro il pizzo, curato dalla giornalista Gilda Sciortino ed edito dal Centro Pio La Torre e da L'Unita'. Il libro nasce dall'esigenza di un gruppo di soci del Coordinamento delle vittime del racket e dell'usura, facenti capo al centro Pio la Torre, di dare voce alle loro esperienze, anche per cercare di dare una mano di aiuto a quanti altri sono entrati nel loro stesso vortice. "Ormai Palermo e la Sicilia non sono piu' disposte a chinare il capo ai mafiosi - ha detto il presidente della Fondazione Bds, Gianni Puglisi - c'e' voglia di riscatto e le denunce aumentano sempre di piu'. L'arroganza dei mafiosi ha fatto svegliare la coscienza civile". "La presa di coscienza del mondo imprenditoriale, della societa' civile - spiega il presidente del Centro Pio La Torre, Vito Lo Monaco - anche perche', inevitabilmente, lo Stato ha dichiarato di essere al fianco di chi decide di denunciare". Nonostante questo, non tutti hanno la forza di rompere le catene. Chi ci riesce deve mettere in conto una vita 'blindata', quindi stravolta e spesso impossibile da sopportare. Vite immolate al sacro fuoco della legalita' e della giustizia come quelle di imprenditori e commercianti presenti in sala del calibro di Vincenzo Conticello, Damiano Greco, Rodolfo Guajana, Andrea Vecchio, che si raccontano nelle pagine di questo libro. Parlano anche magistrati come Antonio Ingroia, Domenico Gozzo, Roberto Scarpinato, il procuratore Nazionale Antimafia, Pietro Grasso, il procuratore della Repubblica di Palermo, Francesco Messineo, ma anche il presidente della commissione Parlamentare Antimafia, Francesco Forgione, per il quale "fortunatamente oggi gli attuali dirigenti di Confindustria non sono certamente quelli di sedici anni fa, quando Libero Grassi venne lasciato da solo con le sue ætammurriate'".
Fonte: AGI.IT

Colpo a Cappello e Sciuto

CATANIA - Un sorvegliato speciale di 37 anni, Vincenzo Fiorentino, considerato dagli investigatori organico del clan Cappello, è stato arrestato da agenti della Squadra Mobile di Catania perchè deve espiare una pena di tredici anni e sei mesi di reclusione per traffico illecito di sostanze stupefacenti, tentativo di omicidio, detenzione e porto d'armi, rapina e sequestro di persona. Fiorentino è stato bloccato in un appartamento del villaggio 'Ippocampo di mare', nella periferia sud della città. È stato trovato in possesso di una pistola semiautomatica Beretta 7.65 con il colpo in canna. Gli agenti gli hanno notificato un ordine di esecuzione per la carcerazione emesso dalla Procura generale della Repubblica di Catania. Sempre oggi, gli agenti della Mobile di Catania hanno notificato due ordini di carcerazione a Cinzia Pitarà, di 34 anni, e Giuseppe Puglisi, di 31, ritenuti affiliati all'associazione mafiosa capeggiata da Biagio Sciuto. Cinzia Pitarà, che era agli arresti domiciliari, deve espiare una pena di otto anni e quattro mesi di reclusione per associazione mafiosa, traffico illecito di stupefacenti ed estorsione. Puglisi deve espiare diciassette anni di reclusione per associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, rapine aqgravate e sequestri di persona. I provvedimenti restrittivi sono stati emessi al termine di un' attività investigativa svolta dalla squadra mobile nel 2004. Pitarà e Puglisi avrebbero avuto, a vario titolo, un ruolo determinante nell'organizzazione in merito al compimento di rapine, estorsioni, ed al traffico illecito di sostanze stupefacenti.
27/03/2008
Fonte: La Sicilia

mercoledì, marzo 26, 2008

Intervista a Camilleri

Da allora (correva l'anno 1994), quello del Commissario Montalbano è diventato un appuntamento letterario molto caro ai lettori italiani, tanto da spingere il padre della riuscitissima saga poliziesca a pubblicare ben 12 romanzi tematici, tutti editi dalla Sellerio (non meno belli sono gli altri, di cui vanno certamente ricordati il «Il birraio di Preston» - vincitore di un premio Vittorini - ed «Il re di Girgenti», imponente romanzo storico ambientato in Sicilia nel primo quindicennio del '700). Grazie ad Andrea Camilleri (Porto Empedocle, 1925), oggi il romanzo giallo vive una nuova, fortunatissima stagione: basti sapere che lo scrittore, autore e regista siciliano è in testa alle classifiche, con oltre dieci milioni di copie vendute nel mondo. Molto discutere sta ancora facendo il suo recente libro sul «boss dei boss» Bernardo Provenzano «Voi non sapete», edito da Mondadori. Camilleri, i suoi romanzi sono tra i più venduti in tutta Europa. Viceversa, da qualche anno a questa parte, i lavori di esimi giallisti americani come Donald Westlake pare si vendano sempre con maggior difficoltà. Possiamo parlare di una rinascita del giallo europeo? «Direi proprio di sì. E c'è un motivo specifico: noi italiani siamo stati più coraggiosi, riuscendo a "contrabbandare" un esame critico della società del nostro tempo attraverso il giallo. Da Lucarelli a Fois, i romanzieri italiani sono stati, e continuano ad essere, più "espliciti". In sostanza, noi abbiamo tradotto in forma letteraria l'esperimento che aveva già cominciato in Italia Scerbanenco (si legga per esempio "I milanesi ammazzano il sabato": l'autore aveva previsto un incancrimento della società del suo tempo. I nostri scrittori hanno poi saputo tradurre la lezione di Scerbanenco in una chiave più moderna. Possiamo affermare che tutto il poliziesco italiano non è altro che il tentativo di definire uno spaccato della odierna società». Tuttavia, furono i romanzi polizieschi americani a rispecchiare per primi la corruzione e le contraddizioni sociali dell'epoca. In seguito cosa è accaduto? «La grande letteratura americana rappresentata da autori come Ammett e Chandler, (di cui i nostri scrittori hanno subìto un fascino considerevole, unitamente a quella di autori italiani come Gadda e Sciascia), faceva quello che in fondo proponiamo noi oggi: mostrare lo spaccato della società. Mentre gli americani col tempo si sono lasciati andare ad una forma -fine a se stessa- di speculazione, noi italiani siamo rimasti fedeli ad un realismo letterario di grande qualità». Perché un libro su Bernardo Provenzano? «Innanzitutto perché il "caso Provenzano" è un caso a parte: contrariamente a tutti gli altri mafiosi, Provenzano è uno di quelli che scrive: dalla lettura dei suoi scritti, i così detti "pizzini" (che la procura di Palermo mi ha dato la possibilità di analizzare attentamente, dopo che la Mondadori ebbe a propormi di farne un saggio) sono emersi la sua particolare concezione del mondo, il suo rapporto con la religione, il suo modo di proporsi come mediatore piuttosto che come "capo dei capi". Ammetto di essere rimasto intrigato da quanto emergeva dalla lettura dei famosi "pizzini"». Ossia? «Che Provenzano era un uomo dal carisma così forte da costringere persone come Salvatore Lo Piccolo o Matteo Messina, ad adeguarsi alla sua "strategia dell'immersione". Questo perché la politica guerriera di Riina non aveva pagato per niente». Il saggio su Provenzano segue una forma «dizionaristica». «Sì: ho scelto le parole più usate dal boss mafioso, ed altre più utili a delineare il contesto in cui si sono svolti i fatti». Non teme che libri come questo possano in qualche modo «mitizzare» la Mafia ed i suoi esponenti? «Direi di no: il mio, lo ripeto, è un saggio e non un romanzo. Inoltre, (ci tengo a ricordarlo perché non intendo guadagnare un solo centesimo con la mafia) tutti i proventi delle vendite sono destinati ai figli dei poliziotti uccisi dalla mafia». Nei suoi romanzi siciliani con protagonista il commissario Montalbano la mafia però è presente… «Non è esatto: si accenna alla mafia; essa è presente solo come "un rumore di fondo". Non ho mai scritto un romanzo con un protagonista mafioso, perché se così fosse, il personaggio mafioso verrebbe alzato di un gradino». Come accade invece in romanzi come «Il giorno della civetta» di Sciascia? «Sì. non v'è alcun dubbio che don Mariano Arena risulti un personaggio simpatico. E questo a mio avviso è sempre un rischio. È quello che succede del resto in opere letterarie o in film come "Il padrino", i quali finiscono con il nobilitare la mafia. Io ritengo che la migliore letteratura per la mafia sia quella che trae i propri contenuti attraverso i verbali della polizia e dei carabinieri; attraverso la lettura delle sentenze dei giudici». Come si arriva al grande successo, Camilleri? «Di questi tempi è difficilissimo. Almeno così è in Italia. Il mio primo romanzo è stato pubblicato dopo 10 anni di tentativi. Ad un giovane scrittore posso solo consigliare di armarsi di tanta pazienza e caparbietà!»
Fomte: Il Tempo

15 ordinanze per membri della cosca Mazzei

CATANIA - I carabinieri del comando provinciale di Catania hanno eseguito un'ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di 15 persone accusate di fare parte di una frangia della cosca Mazzei, collegata a Cosa nostra, che opera nell'aera a nord-est della provincia etnea. I reati contestati, a vario titolo, sono associazione mafiosa, spaccio di sostanze stupefacenti e detenzione di armi. Tra gli arrestati, c'è anche quello che gli investigatori indicano come il capo della cosca Mazzei nella zona di Randazzo: Francesco Montagno Bozzone, nei cui confronti, rivelano i militari dell'Arma, sono stati eseguiti rilevanti sequestri di droga. Secondo quanto emerso dalle indagini, il clan aveva chiesto il pagamento di tangenti anche a un'impresa del Nord Italia incaricata della raccolta di rifiuti solidi urbani per conto dell'Ambito territoriale ottimale (Ato Catania 1), ad alcuni centri benessere e a titolari di autosaloni. L'operazione, denominata 'Trash', è stata disposta al termine di indagini, durate circa due anni, condotte in stretta collaborazione con i giudici della Dda etnea e senza l'apporto di alcun collaboratore di giustizia. Le indagini avevano già portato all'arresto, a vario titolo, di quattro persone, ed al sequestro di circa due chilogrammi di marijuana.
25/03/2008
Fomte: La Sicilia

mercoledì, marzo 19, 2008

Dopo anni, ecco la sentenza...

MESSINA - I giudici della Corte d'assise d'appello hanno confermato la condanna all'ergastolo per il boss Gerlando Alberti jr e Giovanni Sutera accusati dell'omicidio della giovane Graziella Campagna, assassinata nel dicembre 1987 in un paese del messinese.
La Corte ha poi derubricato da favoreggiamento aggravato a quello semplice il reato di cui rispondeva la terza imputata, Francesca Federico, e quindi i giudici hanno dichiarato prescritto il reato. In primo grado la donna era stata condanna a quattro anni. La lettura del dispositivo è avvenuta dopo circa otto ore di camera di consiglio.
Alberti è stato arrestato in un'abitazione di Falcone (Messina), mentre Sutera è stato ammanettato a Empoli. Il boss, nonostante la condanna al carcere a vita in primo grado, era stato scarcerato nel 2006 per decorrenza dei termini, dovuta alla mancata deposizione della motivazione della sentenza entro i termini stabiliti.
Graziella Campagna aveva 17 anni quando venne assassinata nel Messinese. Lavorava come stiratrice in una lavanderia di Villafranca Tirrena, paesino in provincia di Messina. Nessun luogo al mondo sembrava più innocente di quella lavanderia, eppure è proprio in questo luogo che il destino di Graziella viene segnato da due boss mafiosi latitanti di Palermo che dimenticano un biglietto con degli appunti nella tasca di una giacca lasciata in lavanderia.
Graziella scopre che l'uomo che tutti in paese conoscono come l'ingegnere Cannata altro non era che il boss Gerlando Alberti junior, nipote dell'omonimo boss di Palermo. Il mafioso, per paura di essere scoperto, come emergerà dal processo, decide di eliminare la ragazza con l'aiuto di Giovanni Sutera.
La sera del 12 dicembre 1985 Graziella non torna a casa. Qualche giorno dopo il suo cadavere viene trovato a pochi chilometri di distanza da Villafranca Tirrena. Era crivellata di colpi di fucile che gli erano stati sparati da distanza ravvicinata.
Nessun motivo, nessuna ragione apparente dietro l'efferato omicidio. Un delitto su cui nessuno sembra, all'epoca, voler indagare. Eccetto il fratello Pietro, carabiniere, per il quale quella morte misteriosa diventa un'ossessione ed una ragione di vita.
Un'indagine, durata 20 anni, porterà lui e la sua famiglia a scoprire il male che viveva intorno a loro in quella provincia apparentemente tranquilla, ma dove la mafia faceva svernare latitanti coperti da una rete di complicità, connivenze e depistaggi.
Le inchieste negli anni Ottanta vengono stoppate, i procedimenti giudiziari annullati. Infine, dopo le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, il processo prende il via e si conclude nel dicembre 2004 con la condanna all'ergastolo di Alberti e del suo complice Sutera.
Ma il nipote del boss palermitano dopo un anno e mezzo torna in libertà perchè i giudici della Corte d'assise non depositano entro i termini stabiliti le motivazioni della sentenza di condanna e quindi viene annullata per decorrenza dei termini la custodia cautelare.
Alberti, infatti, rimasto in cella per altri reati, ha lasciato il carcere perchè avendo già scontato una condanna per traffico di droga e potendo beneficiare dell'indulto per gli altri reati di cui è stato ritenuto colpevole torna un uomo libero.
La vicenda suscita scalpore e il ministro Mastella nel settembre 2006 invia gli ispettori, che dopo alcuni mesi archiviano il caso sul magistrato che era stato accusato di avere ritardato il deposito delle motivazioni della sentenza.
19/03/2008
Fonte: La Sicilia

Arresti domiciliari per "L'Arciere"

TORINO - Come agente sotto copertura del Ros aveva messo le manette a Totò Riina. Era il 15 gennaio 1993. Altri tempi, altra storia. Perché da questa mattina "Arciere" è agli arresti domiciliari. Il maresciallo dei carabinieri Riccardo Ravera, 44 anni, celebre come braccio destro di "Ultimo", è accusato di concorso in estorsione. Per i pm torinesi Andrea Padalino e Enrico Arnaldi di Balme è complice di una banda di nomadi sinti specializzati in razzie d'opere d'arte.
Dopo gli anni della lotta alla mafia, Arciere era passato in servizio al Nucleo per la tutela del patrimonio culturale e artistico di Torino. La sua missione era recuperare la refurtiva rubata nella Palazzina di caccia di Stupinigi nella notte fra il 18 e 19 febbraio 2004. Un bottino da 8 milioni e 520 mila euro. Ma secondo la Procura, il maresciallo Ravera avrebbe trattato direttamente con i ladri e non con un informatore. Di più: avrebbe cercato di incassare parte del denaro pagato come taglia sulla refurtiva. Un'accusa gravissima. Che lui, difeso dall'avvocato Loredana Gemelli, respinge fermamente: "Tutti i miei movimenti durante quell'indagine delicatissima sono stati concordati con la catena di comando. Procura e vertici dei carabinieri sapevano tutto".
Per la brillante operazione - i mobili furono ritrovati il 26 novembre 2005 su un campo a trenta chilometri da Torino - Ravera era stato premiato e lodato. Ma nei giorni scorsi, quando aveva capito di essere iscritto nel registro degli indagati, aveva restituito la medaglia ricevuta dal presidente della Repubblica. Con lui, questa mattina, è stato arrestato anche il sovrintendente della polizia stradale di Saluzzo, Giuseppe Cavuoti: associazione a delinquere e concorso in estorsione.
Fonte: La Repubblica

21 fermi per racket...

Palermo, 17 mar. (Adnkronos/Ign) - I commercianti e gli imprenditori palermitani vittime del racket del 'pizzo' hanno deciso di rompere il muro dell'omertà e di ammettere le estorsioni subite. La Procura di Palermo ha così emesso 21 provvedimenti di fermo, eseguiti nelle notte dalla Squadra mobile diretta da Maurizio Calvino.
Le manette sono scattate ai polsi di esponenti del clan mafioso del boss Salvatore Lo Piccolo, arrestato con il figlio nel novembre scorso.
Nell'operazione 'Addio pizzo 2', coordinata dal procuratore aggiunto di Palermo Alfredo Morvillo, sono stati impiegati più di cento agenti di Polizia. Alcuni fermi hanno raggiunto i destinatari in carcere, mentre altri erano a piede libero.
Ad aiutare gli investigatori, oltre alle ammissioni dei commercianti vittime del pizzo, l'esame dei 'pizzini' ritrovati nella villa di Giardinello dove sono stati arrestati il 5 novembre scorso Salvatore e Sandro Lo Piccolo, e soprattutto le dichiarazioni dei neopentiti di mafia.
Mentre nei confronti dei commercianti palermitani che hanno negato davanti ai magistrati di aver pagato il pizzo, ci potrebbe essere l'iscrizione nel registro degli indagati con l'accusa di favoreggiamento. I commercianti sono stati ascoltati dagli investigatori nelle ultime settimane, dopo che i loro nomi erano apparsi sui 'pizzini' rinvenuti nel covo dei Lo Piccolo.
Nel corso dell'indagine è stata fatta luce anche sull'attentato incendiario del luglio 2007, quando Cosa nostra distrusse il capannone dell'imprenditore palermitano Rodolfo Guajana che denunciò subito il gesto degli estortori. In manette, infatti, è finito anche l'uomo che, secondo gli investigatori, avrebbe incendiato il deposito di vernici.
Il blitz antimafia di oggi "è un'operazione molto importante perché abbiamo colpito esponenti di spicco del clan Lo Piccolo", sottolinea il dirigente della Squadra mobile di Palermo Maurizio Calvino, arrivato da poco meno di un mese a sostituire Piero Angeloni.
Dal questore di Palermo Giuseppe Caruso, invece, ''l'ennesimo appello ai commercianti e agli imprenditori palermitani vittime del pizzo di denunciare i loro esattori". "Oggi c'è una maggiore presa di coscienza - ha detto ancora Caruso - anche se c'è ancora molta strada da fare''
Per il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso si tratta di "un ulteriore passo avanti per la liberazione dall'oppressione del racket". "I risultati ci sono - aggiunge l'ex procuratore di Palermo - ci si può rivolgere con fiducia alle forze dell'ordine. Speriamo che si continui su questa strada".
Il presidente di Confindustria Sicilia Ivan Lo Bello sottolinea come la collaborazione dei commercianti sia "un importante segnale di come le cose stiano cambiando anche a Palermo". Ma ''siamo ancora all'inizio. Se tutti quanti insieme continueremo su questo percorso, si potranno ottenere grandi risultati".
Fonte: Adn Kronos

Miglioramenti si...Però...

PALERMO - Erano stati accusati di estorsione dal titolare di un'azienda vinicola che li aveva denunciati, ma oggi sono stati assolti a Palermo dal gup che ha invece condannato a tre anni di reclusione un solo imputato, Giovanni Genovese, la cui pena è stata inflitta in continuazione per associazione mafiosa. L'uomo è accusato di essere affiliato al clan di San Giuseppe Jato. Il processo si è svolto con il rito abbreviato davanti al gup Vittorio Anania. Il giudice ha invece assolto altri due imputati dall'accusa di estorsione: Salvatore D'Anna e Ignazio Bruno, entrambi già scarcerati da tempo. Il pm Francesco Del Bene aveva chiesto per loro una pena a sei anni ciascuno. Gli imputati erano accusati dell'estorsione dal titolare della casa vinicola Calatrasi, di Partinico, che però si rifiutò di pagare e denunciò i tre indagati alle forze dell'ordine. La vicenda risale al 2002.
18/03/2008
Fonte: La Sicilia

martedì, marzo 18, 2008

Arance pizzo-free

CATANIA - Ha fruttato finora 1.718 euro la vendita a Catania delle arance 'pizzo-free' raccolte ieri da un gruppo di volontari nell'agrumeto di un imprenditore di Palagonia, che tre anni fa denunciò i suoi estorsori e che si è rivolto all'Associazione antiracket e antiusura etnea perchè nessuno vuole più raccogliere o comperare i suoi agrumi.
La raccolta è stata fatta dai volontari dell'associazione e da quelli di Addiopizzo Catania, Cope, Libera, che davanti al tribunale hanno poi venduto gli agrumi al prezzo simbolico di un euro al chilo e hanno consegnato il ricavato all'imprenditore.
La vendita delle arance 'pizzo-free' proseguirà domani mattina, a partire dalle 10, davanti alla facoltà di Economia e commercio di corso Italia.
"Grazie al nostro aiuto, l'imprenditore agricolo di Palagonia ha evitato il fallimento: è ancora proprietario del suo terreno, che potrà vendere, per ricominciare daccapo. Della vicenda si interesserà il neo commissario antiracket Giosuè Marino, per fare in modo che riceva un sostegno economico da parte dello Stato". Ha detto Gabriella Guerini, presidente dell'associazione antiracket e antiusura etnea.
"Siamo molto contenti per come è andata la raccolta delle arance, i volontari hanno lavorato con amore e passione e raccolto cinquanta quintali di agrumi". Guerini ha detto che l'associazione continuerà la vendita delle arance 'pizzo-free' aggiungendo di aver ricevuto numerose richieste da parte di scuole di Catania, e una dalla Sardegna.
17/03/2008
Fonte: La Sicilia

Pace condannato a 20 anni

TRAPANI - Il tribunale di Trapani ha condannato Francesco "Ciccio" Pace a 20 anni di reclusione per mafia ed estorsione. La sentenza è stata dal collegio presieduto da Gaetano Trainito. Il pubblico ministero, Andrea Tarondo, aveva chiesto 23 anni. Pace è ritenuto il capomandamento di Trapani (ruolo che avrebbe assunto nonostante non fosse organico a Cosa Nostra), successore del boss Vincenzo Virga, arrestato nel 2001. Gli avvocati Mario Giraldi e Ferruccio Marino, difensori dell'imputato, hanno preannunciato appello.
17/03/2008
Fonte: La Sicilia

Racket... Qualche miglioramento...

PALERMO - Alcune vittime delle estorsioni hanno ammesso il pagamento del pizzo a Palermo e la procura ha disposto il fermo per 21 persone accusate di essere gli esattori del racket di Cosa nostra. I provvedimenti sono stati eseguiti dalla Squadra mobile.
Le indagini hanno riguardato l'esame incrociato dei "pizzini" trovati nel covo dei latitanti Salvatore e Sandro Lo Piccolo in occasione della loro cattura avvenuta il 5 novembre scorso. Un contributo è arrivato anche dai collaboratori di giustizia e da alcuni imprenditori e commercianti palermitani stanchi di subire i taglieggiamenti da parte di affiliati alle cosche mafiose.
L'indagine ha inoltre fatto luce su chi ha pianificato, organizzato ed eseguito l'attentato incendiario che lo scorso luglio ha distrutto l'attività commerciale dell'imprenditore Rodolfo Guajana a Palermo. L'inchiesta è coordinata dal pool di magistrati coordinati dal procuratore aggiunto Alfredo Morvillo. L'operazione è stata denominata "Addio pizzo 2" e vi sono stati impiegati 100 agenti della squadra mobile della polizia di Stato di Palermo.
"Siamo a una svolta epocale nelle collaborazione degli imprenditori, il numero è in aumento e non può che farci piacere", ha affermato il questore di Palermo, Giuseppe Caruso, a margine della conferenza stampa dell'operazione. "C'è un certo aumento nel numero delle collaborazioni degli imprenditori. Non sono una valanga ma vista la base esigua di partenza c'è un sensibile aumento", ha aggiunto il procuratore capo di Palermo, Francesco Messineo, annunciando che la polizia su delega della magistratura sta effettuando dei sequestri a presunti prestanome dei boss Lo Piccolo. I provvedimenti sono relativi a quote societarie.
Ecco l'elenco delle persone fermate, tutte accusate di estorsione: Giovanni Cusimano, 67 anni, cugino dei boss Salvatore Lo Piccolo, Vittorio Bonura, 40 anni, Pietrò Cinà, 42 anni, Tommaso Contino, 47 anni, Salvatore Liga, 23 anni, Tommaso Macchiarella, 54 anni, Filippo Mangione, 26 anni.
Hanno , invece, ricevuto un provvedimento restrittivo in carcere dove già si trovavano reclusi: Piero Alamia, 39 anni,Michele Catalano,49 anni, Domenico Ciaramitaro,34 anni, Salvatore Davì, 60 anni, Giovanni battista Giacalone, 35 anni, Andrea Gioè, 40 anni, Salvatore e Sandro Lo Piccolo, Antonino Mancuso, 47 anni, 33 anni, Domenico Serio, 32 anni e Giuseppe Massimo Troia, 34 anni.
17/03/2008
Fonte. La Sicilia

domenica, marzo 16, 2008

Il pass degli imprenditori

CATANIA - Gli imprenditori taglieggiati in Sicilia operano come se fossero in possesso di una sorta di pass virtuale, un'autorizzazione verbale non scritta, valido in tutta l'isola che 'tutela' l'azienda rivolgendosi soltanto al suo clan di riferimento in qualsiasi lavoro compia in tutta la regione.
Il meccanismo funziona così bene che persino gli imprenditori, anche quelli che provengono da realtà territoriali diverse da quelle isolane, cercano preventivamente il contatto con gli esponenti mafiosi locali per garantirsi il regolare andamento dei lavori.
Lo scrive la Commissione parlamentare antimafia nella sua relazione finale, parlando di estorsioni e appalti pubblici a Catania sottolineando che "la preventiva ricerca dell'esponente mafioso, 'competente per territoriò rappresenta la soluzione sconsolante e sconfortante, ma di certo pragmatica, che consente all'impresa di razionalizzare e preventivare i costi riconducibili alla presenza della criminalità organizzata".
Secondo l'Antimafia, questo 'pass' produce per l'impresa ed il clan tre diversi tipi di vantaggio: solleva l'azienda dall'onere di individuare, contattare e contrattare, di volta in volta, il clan da cui ottenere il 'pass' sul territorio; crea tra i clan una sorta di camera di compensazione; finisce con il calmierare il mercato omogeneizzando in linea di massima i costi della protezione.
Secondo l'Antimafia: "il capillare sistema di arricchimento parassitario che si concretizza con le estorsioni, presenta singolari capacità di rigenerarsi e di perpetuarsi, ad onta degli arresti e delle
condanne: in molti di questi casi l'estorsione rimane solo 'sospesa' in attesa che altri appartenenti al clan la rilevino, subentrando agli arrestati e, non di rado, pretendendo anche il saldo degli arretrati".
Negli appalti di opere pubbliche ed in quelli di natura privata se di consistente importo, si verifica "una diffusa infiltrazione, produttiva di cospicui guadagni ottenuti non solo con l'imposizione del pizzo, ma anche e soprattutto con il controllo dell'indotto, realizzato attraverso il condizionamento dell'appaltatore, sia nella scelta delle forniture da acquisire presso imprese mafiose o vicine alle consorterie mafiose, sia nella scelta dei sub appaltatori". Questo comporta, per la famiglia che controlla l'appalto, la "possibilità di incrementare gli utili attraverso il meccanismo dei prezzi imposti o della soprafatturazione".
Anche nella realtà della Sicilia Orientale, così come in quella della Sicilia occidentale, sottolinea l'Antimafia, la collaborazione delle vittime alle indagini delle forze dell'ordine "costituisce per lo più l'eccezione e non la regola". E così va inquadrata anche "la reazione di taluni, pochi imprenditori, come, da ultimo il geometra Andrea Vecchio". Per la Commissione questi casi "rappresentano, in sostanza, solo un timido segnale che ancora non è prova di una unanime e generalizzata tendenza degli operatori economici".
15/03/2008
Fonte: La Sicilia

Piccolo schema...

CATANIA - Si presenta "frammentata" e in "continuo cambiamento" la galassia della mafia catanese.
Ci sono tanti gruppi che operano in maniera autonoma e soltanto alcuni di essi possono considerarsi affiliati a Cosa Nostra e anche quelli che "si trovano in contrapposizione tra loro, a volte stringono alleanze", con "taciti accordi di non belligeranza e non interferenza" per fare affari o evitare l'interesse degli investigatori. Lo scrive la relazione della Commissione antimafia nell'analisi su Catania e la Sicilia orientale.
L'intensa opera di repressione che è stata condotta negli anni precedenti, lo stato di detenzione dei capi storici delle singole famiglie, ed infine il tempestivo arresto dei soggetti che in successione hanno assunto la leadership dei vari gruppi hanno determinato uno stato di grave difficoltà per le singole famiglie mafiose.
Nel momento attuale sembrerebbe vigere tra le famiglie una sorta di pax mafiosa, anche se si registrano, inoltre, forti ed inequivocabili segnali di riorganizzazione, agevolata anche dalla remissione in libertà, per fine pena o per effetto dell'indulto, di alcuni soggetti dalla notevole caratura criminale.
Questo il quadro complessivo fornito dall'Antimafia sulle sei famiglie che operano tra Catania e Siracusa.
La famiglia Santapaola- Ercolano, affiliata a Cosa Nostra, con le sue articolazioni sia a Catania centro sia in altri paesi della provincia e del distretto alla quale sono collegati, i seguenti sottogruppi: Assinnata, Santangelo, Sebastiano Sciuto, Brunetto, Catania , Squillaci e La Rocca.

La famiglia Laudani, particolarmente presente nei paesi pedemontani ed, inoltre, a Paternò in collegamento con la famiglia Morabito; a Piedimonte Etneo con il gruppo diretto da Di Mauro Paolo; a Randazzo con il gruppo diretto da Rosta e Mangani.

La famiglia Mazzei, affiliata a Cosa Nostra, nella quale è confluito il gruppo dei Cursoti milanesi. Gruppo diretto da Santo Mazzei, detenuto e da Santo Di Benedetto, arrestato il 24 giugno 2007.

La famiglia Cappello: operante in alcuni quartieri catanesi (Civita e San Cristoforo), nel siracusano (Porto Palo) e a Calatabiano con il clan Cintorrino.

La famiglia Pillera-Puntina, presente a Catania, guidata da Corrado Favara e Nuccio Ieni.

La famiglia Sciuto-Tigna, presente a Catania. A questi storici clan mafiosi più legati al territorio catanese deve aggiungersi la famiglia radicata nel territorio di Caltagirone facente capo a Francesco La Rocca, personaggio di grande prestigio, anch'essa affiliata a Cosa Nostra.
15/03/2008
Fonte: La Sicilia

venerdì, marzo 14, 2008

Arrestato latitante da un anno

Palermo - 13 marzo 2008 - I Carabinieri del Gruppo di Monreale nei giorni scorsi durante l'esecuzione di un posto di blocco hanno catturato un latitante 63enne da Alcamo (TR), ricercato dall'ottobre 2007 a seguito della condanna all'ergastolo per un omicidio commesso nel 1981 ad Alcamo nei confronti di un uomo del luogo.
Appartenente ad un famoso clan, l'omicidio avvenne nell'ambito della cosidetta guerra di mafia nella scalata dei corleonesi contro le altre cosche siciliane per il controllo di "Cosa Nostra".
L'arrestato viaggiava a bordo dell'auto del fratello, quando in Partinico veniva fermato dai Carabinieri che avevano in corso un articolato servizio di controllo del territorio.
L'arrestato è stato tradotto presso il carcere "Pagliarelli" di Palermo.
Fonte: Sesto potere

Confindustria Trapani parte civile

PALERMO - Per la prima volta Confindustria Trapani si è costituita parte civile in un processo nel quale è imputato un imprenditore, che era iscritto all'associazione degli industriali, accusato di concorso in associazione mafiosa ed estorsione.
È stato il gup Lorenzo Matassa ad ammettere la costituzione di parte civile durante l'udienza preliminare accogliendo la definizione dell'associazione intesa come "parte offesa in quanto esercente interessi diffusi nel territorio".
Nel processo sono imputate sette persone fra cui un imprenditore. La vicenda riguarda la tentata acquisizione della Calcestruzzi Ericina. Confindustria Trapani è presieduta da Davide Durante e in questo procedimento è assistita dall'avvocato Giuseppe Novara. "Non abbiamo esitato - spiega Durante - ad assumere questa iniziativa, in applicazione di quanto deliberato da Confindustria Trapani circa l'impegno contro la mafia, e su questo fronte non faremo sconti a nessuno".
"È anche vero - ammette Durante - che l'avere scoperto che un nostro associato non agiva nella legalità ci ha amareggiato moltissimo". "È indubbio - aggiunge - che in ogni caso si è arrecato un grave danno al sistema economico provinciale rappresentato da Confindustria Trapani, soprattutto perchè nessun sospetto si poteva nutrire riguardo all'integrità dell'imprenditore associato, fino al suo arresto avvenuto lo scorso 4 aprile. Nella vicenda in questione egli ha svolto un ruolo da protagonista anche coinvolgendo l'associazione nei confronti delle istituzioni pubbliche, e ciò ha sicuramente arrecato un danno rilevante a Confindustria e alle aziende associate, così come riconosciuto dal giudice".
"Prosegue così - aggiunge Durante - il nostro impegno contro mafia e racket, che si concretizza nell'applicazione del codice etico di Confindustria Sicilia e nell'attività dell'associazione antiracket da noi promossa".
13/03/2008
Fonte: La Sicilia

giovedì, marzo 13, 2008

Uno dei Lo Piccolo è troppo grasso...

PALERMO - È troppo grasso per stare in carcere. Con i suoi 210 chili non passa dalla porta del bagno, il letto della cella non lo regge e, addirittura nell'istituto di pena di Pesaro, dove è stato detenuto per un pò, non avevano neppure una bilancia alla sua portata. Per questo a Salvatore Ferranti, 36 anni, uomo del clan mafioso palermitano dei Lo Piccolo, detenuto per associazione mafiosa, sono stati concessi gli arresti domiciliari.
La scarcerazione è stata disposta dal tribunale del riesame di Palermo. Arrestato il 9 agosto scorso, nell'ambito di un'indagine della Dda sul clan Lo Piccolo, a settembre è stato trasferito nel carcere di Pesaro. Dopo qualche giorno, però, è stato ritenuto "non idoneo alla permanenza" in quella struttura penitenziaria che avrebbe dovuto destinare alla sua assistenza un agente 24 ore al giorno.
Il responso del carcere marchigiano ha determinato il trasferimento di Ferranti a Monza. Dal carcere lombardo, però, hanno scritto al Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria che "Il detenuto non può dormire, non avendo un letto adatto al suo peso e non può andare in bagno perchè non passa dalla porta". Inutile anche l'ultimo trasferimento nel carcere milanese di Opera.
Secondo i giudici del riesame: "Le condizioni di salute di Ferranti non hanno trovato una degna sistemazione che abbia reso compatibile con la detenzione la grave obesità da cui l'indagato è affetto".
Non è la prima volta che l'obesità apre le celle a un detenuto: due anni fa Aristide Angelillo, 42 anni, napoletano, peso ben 270 chili era stato rimesso in libertà. Nove mesi prima, nel carcere di Parma, era morto Leone L.: aveva 32 anni e pesava 260 chili.
12/03/2008
Fonte: La Sicilia

Non è il cadavere di De Mauro...

CATANZARO - Non è di Mauro De Mauro, il giornalista dell'Ora di Palermo, scomparso nel 1970, il cadavere sepolto nel cimitero di Conflenti, nel Catanzarese. Lo ha stabilito l'esame del Dna sul cadavere e la successiva comparazione con quello del giornalista disposto dalla Dda di Catanzaro.
Quello di Conflenti, dove il 23 settembre dell'anno scorso ci fu lo scavo per riportare alla luce il cadavere che si supponeva fosse di De Mauro, è un cimitero con tanti morti senza nome, teschi sepolti che non si sa di chi sono, bare con resti di persone mai identificate.
L'ipotesi che potesse esserci anche il cadavere di Mauro De Mauro si basa sulla rivelazioni di un collaboratore di giustizia, Massimo De Stefano, un tempo affiliato alla cosca Torcasio. È stato lui a riferire che De Mauro fu sepolto nel 1971 nel cimitero di Conflenti dopo che Cosa nostra aveva chiesto alla 'ndrangheta un aiuto per fare sparire il cadavere del giornalista.
Il collaboratore ha anche riferito del piano che sarebbe stato organizzato per fare credere che un affiliato alla 'ndrangheta, Salvatore Belvedere, fosse morto e fosse stato sepolto proprio nel cimitero di Conflenti. Belvedere, esponente di spicco della 'ndrangheta, era evaso nel 1970 dal carcere di Lamezia Terme insieme ad altri tre pregiudicati, tra cui Pino Scriva, poi diventato collaboratore di giustizia.
Il suo scopo era quello di spacciarsi per morto per potersi poi allontanare dalla Calabria e rifugiarsi in Corsica, dove si sarebbe rifatto una nuova vita. Ed al suo posto, nel cimitero di Conflenti, sempre secondo il racconto del pentito, sarebbe stato sepolto proprio Mauro De Mauro. Anche un libro, scritto dal giornalista di Gazzetta del Sud Arcangelo Badolati, aveva raccontato tutti i misteri attorno alla scomparsa di De Mauro e al luogo della sepoltura del cadavere.
Gli accertamenti compiuti dal perito, il prof. Giulio Di Mizio, dell'Istituto di Medicina legale dell'Università di Catanzaro, avevano portato ad escludere, il 30 gennaio scorso, che il cadavere fosse di Belvedere. Dopo questo risultato, gli esami hanno avuto un ulteriore impulso e l'11 febbraio scorso un campione di materiale biologico è stato prelevato a Franca De Mauro, figlia del giornalista scomparso, allo scopo di effettuare il confronto col Dna dei resti riesumati.
Resta adesso da stabilire di chi sia il cadavere sepolto nel cimitero. Una risposta difficile da trovare, dal momento il perito dovrebbe comprare il Dna del cadavere con quello di tutti gli scomparsi agli inizi degli anni '70.

12/03/2008
Fonte: La Sicilia

Chieste le condanne per l'omicidio Lizzio

CATANIA - La condanna all'ergastolo per due presunti appartenenti alla cosca Santapaola, Francesco Squillaci, di 39 anni, e Giovanni Rapisarda, di 50, e 15 anni di reclusione ciascuno per i boss pentiti Natale Di Raimondo e Umberto Di Fazio.
Sono le richieste del pm Francesco Puleio al processo per l'uccisione a Catania, 16 anni fa, dell'ispettore capo di polizia, Giovanni Lizzio, che si celebra con il rito abbreviato davanti al Gup Luigi Barone.
Secondo l'accusa l'investigatore della squadra antiracket della squadra mobile della Questura etnea sarebbe stato assassinato il 27 luglio del 1992 da un gruppo di 'fuoco' composto da Di Fazio, Squillaci e da un altro sicario, Salvatore Pappalardo, poi a sua volta eliminato dalla mafia, il 29 ottobre del 1999, con delitto di 'pulizia interna' alla stessa 'famiglia'.
Il movente, secondo la Procura di Catania, è da collegare alla strategia della tensione decisa da Cosa nostra anche nella Sicilia orientale dopo la strage di Via D'Amelio a Palermo. La prossima udienza, con l'intervento degli avvocati difensori, è stata fissata per il 7 aprile.
Giovanni Lizzio fu assassinato nella sua Alfa Romeo "75", mentre era incolonnato a un semaforo rosso di via Leucatia nel rione periferico Canalicchio. Due sicari si affiancarono alla vettura e spararono numerosi colpi di pistola alla testa e al torace. Morì nell' ospedale Cannizzaro dove fu trasportato in ambulanza. Per 10 anni era stato fra gli investigatori di punta della sezione omicidi della Questura di Catania.
A sparare materialmente, secondo l'accusa, furono proprio il boss Di Fazio, con una pistola automatica che si inceppò dopo il primo colpo, e Francesco Squillaci, con un'arma a tamburo. L'agguato fu portato a termine al secondo tentativo, il primo, infatti, sarebbe andato a vuoto.
Per l'omicidio è stato condannato all'ergastolo, con sentenza passata in giudicato, in qualità di mandante, il capomafia Benedetto Santapaola. Assolti il vice il nipote e alter ego del boss, Aldo Ercolano, e il loro luogotenente di fiducia, Carletto 'Calogero' Campanella.
12/03/2008
Fonte: La Sicilia

Canciamilla condannato

PALERMO - La terza sezione del tribunale di Palermo, presieduta da Raimondo Lo Forti, ha condannato a tre anni e quattro mesi di reclusione Salvatore Canciamilla, riconoscendolo colpevole di rivelazione di notizie riservate e favoreggiamento aggravato dall' articolo 7, per aver agito nell'interesse di Cosa nostra. Il pm Costantino De Robbio, aveva chiesto per lui la condanna a tre anni e sei mesi.
I fatti in esame risalgono al 2001. Canciamilla, appuntato della Guardia di Finanza di Bagheria, è accusato di aver passato al boss di Trabia Salvatore Rinella, allora latitante, notizie riservate su un'indagine sul lotto clandestino nella quale erano coinvolte le famiglie mafiose di quella zona. Rinella è stato poi catturato nel 2003.
Dall'inchiesta, ma soprattutto da numerose intercettazioni ambientali, è emerso che Canciamilla aveva rivelato notizie riservate relative ad una informativa contenente gli elementi fondamentali dell'indagine sul lotto clandestino a Diego Rinella, fratello del boss, incontrandosi con lui in un luogo appartato.
L'imputato, originario di Trabia, si è difeso dicendo che era "amico d'infanzia" di Diego Rinella, e che voleva "farsi bello ai suoi occhi". Il difensore aveva chiesto il patteggiamento, subordinato alla derubricazione del reato contestato in quello di favoreggiamento semplice. Il pm si è opposto.

12/03/2008
Fonte: La Sicilia

mercoledì, marzo 12, 2008

L'opinione di Crocetta...

PALERMO - "Mi chiedo se occorrono tre anni di conferenze stampa e di dichiarazioni e l'impegno di alcuni giornalisti nel raccontare quello che è accaduto fino adesso al tribunale di Gela per far accendere i riflettori sul caso del mancato deposito della sentenza di una condanna". Rosario Crocetta, il sindaco di Gela che ha denunciato in questi anni il mancato deposito delle motivazioni della sentenza di condanna che ha provocato la scarcerazione di alcuni affiliati alle cosche mafiose nissene, è incredulo. E allo stesso tempo soddisfatto.
"Mi fa piacere - aggiunge Crocetta - adesso che è stata fissata per il prossimo 4 aprile l'udienza per la sospensione provvisoria dalle funzioni del giudice che era stata chiesta a gennaio dal ministro della Giustizia, dopo che il caso era stato sollevato da agenzie di stampa e giornali in seguito a mie dichiarazioni".
Estremamente critica Anna Finocchiaro, presidente del gruppo del PD al Senato e candidata presidente della Regione siciliana: "Quando parlo di riforma necessaria della giustizia parlo in primo luogo di questo: otto anni per scrivere una sentenza di condanna, con conseguente scarcerazione di un intero clan mafioso, sono uno scandalo che non ci possiamo permettere, indegno di un Paese civile".
"Voglio dirlo con chiarezza, ciò che è accaduto è indegno di un Paese civile - ribadisce Finocchiaro - arrivare alla scarcerazione di un intero clan mafioso, già condannato, perché il magistrato in otto anni non è stato in grado di scrivere le motivazioni della sentenza, è inaccettabile".
"Immagino anni di indagini andate in fumo, insieme con l'operazione dell'arresto - dice - e i mafiosi in giro per la città come se niente fosse. Tutto ciò è intollerabile, perché indebolisce lo Stato nei confronti della mafia e alimenta nei cittadini onesti, e anche nelle forze dell'ordine, il senso di impotenza nei confronti della criminalità organizzata".
Per Rita Borsellino "questo caso si aggiunge ai tanti altri paradossi del sistema giudiziario italiano che si conferma debole in fatto di certezza della pena e, come nel caso di Gela che ha portato la scarcerazione di un clan mafioso, anche di regole e di tempi certi. Serve una riforma e questa dovrà essere una delle priorità del prossimo governo".
11/03/2008
Fonte: La Sicilia

Ma può accadere una cosa simile...

GELA (CALTANISSETTA) - Un giudice, dopo otto anni, non deposita la sentenza in un processo di mafia e i boss, invece di trovarsi in carcere, sono in libertà. Accade a Gela, in provincia di Caltanissetta.
Nel maggio del 2000 vennero condannati in primo grado quattro esponenti di primo piano di Cosa nostra: a 24 anni di reclusione Giuseppe Lombardo e Carmelo Barbieri; a 10 e 8 mesi Maria Stella Madonia e Giovanna Santoro, rispettivamente sorella e moglie del boss ergastolano Piddu Madonia.
Il giudice Edi Pinatto avrebbe dovuto pubblicare i motivi della sentenza tre mesi dopo il pronunciamento, ma non lo ha ancora fatto. Così nel 2002 i quattro presunti mafiosi, insieme a quattro favoreggiatori condannati a pene minori, sono stati scarcerati per scadenza dei termini di custodia cautelare.
Nel frattempo, il magistrato ha ottenuto il trasferimento dal Tribunale di Gela alla Procura di Milano. A nulla sono valsi i provvedimenti disciplinari del Csm, con la perdita di 26 mesi di anzianità. "Ho depositato nove delle dieci sentenze arretrate lavorando durante tutti i periodi di ferie", ha dichiarato "senza alcun intento polemico" Pinatto.
Il magistrato con questa affermazione ha voluto quindi sottolineare la "buona volontà di depositare tutti gli atti per tempo". A quanto si è appreso, l'ultima delle dieci sentenze che resta da depositare dovrebbe essere in cancelleria entro il mese di marzo.
Tra le sentenze arretrate, le ultime depositate risalgono al settembre scorso e riguardavano una condanna a 15 anni di reclusione per associazione mafiosa a carico del capoprovincia Nisseno Piddu Madonia, in un caso, e quella a carico di un ufficiale di polizia giudiziaria accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Tra le altre sette depositate in ritardo, c'erano altri fatti di associazione mafiosa, incidenti sul lavoro e tentato omicidio.
"Entro la fine di questo mese o nei primi giorni del prossimo deposito la sentenza", disse Pinatto il 5 giugno del 2006, interrogato dal pm di Catania Ignazio Fonzo nell'ambito della prima inchiesta che lo vedeva indagato per omissione di atti d'ufficio.
Nel corso di quell'interrogatorio Pinatto, disse che aveva lasciato Gela prendendo il possesso anticipato alla procura di Milano e che poiché aveva un residuo di 10 sentenze da scrivere aveva anche preso le ferie per redigerle. Al pm Fonzo che lo interrogava, Pinatto disse anche che se non fosse stato trasferito subito le avrebbe scritte tutte, compresa la 'Grande Oriente'. L'interrogatorio si concluse con l'impegno di scriverle.
11/03/2008
Fonte: La Sicilia

16 anni per Lo Giudice

Erano da poco trascorse le 18.30 quando il giudice Antonina Sabatino ha letto la sentenza relativa al processo ordinario derivato dall'operazione Alta Mafia che vedeva imputati tra gli altri l'ex deputato regionale dell'Udc Vincenzo Lo Giudice.
Ed è stato proprio lui ad avere inflitta la pena più alta 16 anni ed 8 mesi di reclusione. Questa nel dettaglio la decisione della corte: Francesco Castaldo assolto, Salvatore Curtopelle 1 anno e 6 mesi, Calogero Di Caro 10 anni, Maurizio Di Gati 5 anni, Salvatore Failla ex presidente dello Iacp di Agrigento, 6 anni e 4 mesi, Diego Fanara 3 anni e 10 mesi, Salvatore Giambarresi ex funzionario del Comune di Canicattì 3 anni e 6 mesi , Emanuele Guarneri assolto, Vincenzo Guarneri 4 anni, Salvatore Iacono ex Capo del Genio civile di Agrigento ed ex consigliere provinciale Udc 4 anni e 4 mesi, Rino Lo Giudice ex presidente del Consiglio provinciale di Agrigento 3 anni, Calogero Marino 3 anni ed Antonio Scrimali ex sindaco di Canicattì 4 anni e 2 mesi.
Riconosciuto il diritto al risarcimento dei danni da liquidarsi in separata sede ai comuni di Agrigento, Canicattì e Comitini, l'Istituto autonomo case popolari e l'Assessorato regionale ai Lavori pubblici. In alcuni casi la Corte ha inflitto condanne più severe rispetto alle richieste dei pubblici ministeri.
Fonte: Agrigento news